Gigi Riva, il figlio Nicola a quattro mesi dalla morte: «Mio padre, immenso e fragile. Negli ultimi anni ho scoperto un'altra persona»

Gli aspetti più intimi del papà: il carattere schivo, i ricordi dolorosi dell'infanzia, la lotta alla depressione, gli insegnamenti che ha trasmesso

Gigi Riva, il figlio Nicola a quattro mesi dalla morte: «Mio padre, immenso e fragile. Negli ultimi anni ho scoperto un'altra persona»
di Pietro Cabras
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Martedì 21 Maggio 2024, 06:54 - Ultimo aggiornamento: 22:20

Primo febbraio 1976, stadio Sant'Elia, Cagliari-Milan. Vicino alla bandierina, Aldo Bet contrasta Gigi Riva: è l'ultima azione del più grande attaccante italiano, strappo muscolare alla coscia destra. Nel 1976, a casa Riva nasce Nicola. Che ci racconta, a quattro mesi dalla scomparsa del padre, il 22 gennaio scorso, chi era davvero Riva, non il bomber ma il papà, non l'ala sinistra ma il padrone di casa, non il mito ma il custode di insegnamenti e valori, di cui Nicola va giustamente orgoglioso.
«Sono del 1976 e quindi non l'ho visto giocare. Da bambino per me papà era solo un calciatore famoso. Ma non esistevano Internet o YouTube, per guardare i suoi gol aspettavo che ci fosse una ricorrenza o una sua partecipazione rara a un programma Tv. Era un'emozione, ogni volta: mi venivano le lacrime. Fu un conflitto, da appassionato di calcio: capivo che era mio padre, ma anche che era Gigi Riva».

A casa non parlava di sé?
«Assolutamente no. E noi chiedevamo molto poco. Piano piano mi sono reso conto che non era solo un uomo di sport, ma si andava molto oltre: c'era il legame con la Sardegna, era come se fosse parente di tutti i sardi. E anche fuori, era benvoluto da tutti. Perché era una bandiera, e credo che nel calcio le bandiere piacciano a tutti».

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Come reagiva suo padre di fronte ai complimenti?
«L'amore vero gli faceva piacere. È una delle ragioni per cui non se n'è mai andato dalla Sardegna: sentiva che era un legame sincero, autentico.

Per i sardi il regalo più grande non sono stati i suoi gol, ma che lui non li abbia mai abbandonati. Noi di questo siamo molto fieri»

Parlava il sardo?
«Lo capiva, non lo parlava. Ogni tanto qualche battuta, rarissima, ma aveva mantenuto l'accento lombardo e ci faceva ridere. Qualcosa in cagliaritano, "ma baidindi..." ci diceva, "ma vattene!!". E poi "ajò", ma quello è normale».

Come è stato essere il figlio di Riva?
«Una sollecitazione continua, sin da bambino. Quando giocavo a pallone, il paragone era difficile da sostenere. Io cominciai a sei anni, ma quando passai al Cagliari, a 14, la maglia era pesantissima e io con questo cognome non mi sentivo sereno. Ho avuto un rifiuto e ho smesso: per quattro anni non ho voluto più saperne del calcio. Avevo la consapevolezza che diventare come lui sarebbe stato impossibile»

In tutto questo suo padre?
«E' rimasto al di fuori. Non è mai venuto a vedermi, non mi ha mai dato un consiglio. Non voleva essere un peso per me. Invece allo stesso tempo io avrei avuto bisogno di un parere, di un sostegno».

 

Era un padre severo, un padre presente, un padre da coccole?
«Non era da abbracci, baci, niente. Non ti diceva ti voglio bene: te lo faceva capire. Ma non mancava mai: feste, ricorrenze, parenti, lui c'era e gli piaceva partecipare. Era rimasto orfano presto, la vita in famiglia gli era mancata e si vedeva. Io personalmente ho recuperato negli anni il nostro rapporto: quando usciva di meno e lo avevo in casa, allora lo abbracciavo, lo baciavo, si era creato un rapporto più fisico, ne sentivo il bisogno. E' stato bellissimo: come se lo avessi conosciuto una seconda volta, ho riscoperto una nuova parte di lui»

Era generoso?
«Non ci ha fatto mancare mai nulla, ma ci ha insegnato che dovevamo sudarci ogni cosa. A Natale c'è sempre stato. E qualche sorpresa me l'ha fatta: un anno mi ha regalato una macchina, era una Micra. Inaspettata, non era da lui. Motorino mai, aveva paura».

Vacanze insieme?
«Non l'ho mai visto concedersi una vacanza. Prendere l'aereo per lui era un peso. La sua vera vacanza era quando tornava a Leggiuno, il suo paese»

Vi ha portato spesso?
«Io e mio fratello andavamo dai miei zii, l'estate, anche un mese intero, e lui magari veniva una settimana. E raccontava, allora sì, in quel contesto riuscivamo a ricostruire i frammenti della sua infanzia, che era stata terribile. Voglio scrivere un libro su Riva bambino, ho tanto materiale, ho promesso a papà che lo farò».

Guardavate le partite insieme?
«Mai. Ce lo proibiva, quando eravamo a cena con lui. Soffriva: Cagliari e Nazionale lo facevano star male. Pativa la tensione, si agitava».

Ha sempre parlato di insegnamenti di suo padre. Qualcuno su tutti?
«Non era di tante parole. Ci ha educato con l'esempio, non con le frasi fatte. Coerenza, amore della verità, educazione: lui era così».

Si arrabbiava con voi?
«Poche volte. Non doveva alzare la voce, bastava lo sguardo».

La frase che vi faceva sentire all'altezza?
«Sono orgoglioso di voi. Detta da un padre è enorme. Detta da mio padre, Gigi Riva, era una medaglia che ti dovevi guadagnare».

Discuteva con voi della sua salute, nell'ultimo pariodo?
«Ci ho riflettuto tanto in questi mesi. Mi sono convinto che si fosse accorto che qualcosa non andava. Ma non si lamentava, la sua dignità è emersa anche in quei momenti, di sicuro dentro di sé aveva un vulcano. Non voleva accanimenti terapeutici, gli avevano proposto un intervento, e ha risposto: ci penserò».

Che rapporto aveva con il dolore fisico, lui che aveva avuto infortuni terribili?
«Mi diceva sempre che non aveva rimpianti: rifarei quel contrasto, mi diceva, me ne spaccherei altre venti di gambe. Ha sofferto molto la depressione, invece. Un uomo come lui, razionale, di fronte a una malattia subdola, ha faticato a farsene una ragione. Gli siamo stati accanto, siamo riusciti a portarlo a Milano, la dottoressa Colombo è stata la sua ancora di salvezza. Un periodo molto lungo, dal 1996 fino a quando ci ha lasciato».

Che cosa l'ha scatenata, secondo voi?
«Credo che sia scaturita dai dolori dell'infanzia, la morte del padre, il collegio che lo ha fatto chiudere di più in se stesso. Ma la botta è stata nel momento in cui, con il primo contratto da semiprofessionista in tasca, quando poteva finalmente aiutare in casa, la mamma se n'è andata. Queste sofferenze alla fine gli hanno presentato il conto».

L'ultima frase di suo padre?
«Sentivo che aveva bisogno di noi. Quando la sera lasciavamo l'ospedale ci diceva: rimanete ancora, state qui. Era il segno del cambiamento. Mio padre ha avuto tre vite: Luigi quando era sul lago, a Leggiuno; Gigi Riva qui in Sardegna, in casa non è mai stato Gigi; infine un paio di anni fa ha ricominciato a vivere la famiglia da vicino, ha riscoperto il bisogno dei suoi cari, delle cose semplici, si è tolto il mantello di Gigirriva ed è tornato Luigi bambino».

Il Cagliari è salvo: domenica hanno evocato tutti Gigi Riva.
«Il mister Ranieri si è sentito di ringraziare papà, perché anche dopo un colloquio con mio padre aveva accettato la sfida. Sarebbe stato triste finire in Serie B proprio in questo 2024 in cui papà purtroppo se n'è andato».

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