Andrea Bassi

L’analisi/ Sette anni di vacche magre

di Andrea Bassi
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Giovedì 16 Maggio 2024, 00:45 - Ultimo aggiornamento: 00:46

Sette anni di vacche grasse. E ora sette anni di vacche magre. Tanti quanto durerà il piano di rientro dei conti pubblici che nei prossimi mesi l’Italia dovrà presentare agli altri partner europei.

E farselo approvare non sarà come partecipare al ballo delle debuttanti. Diciamolo, forse non siamo pronti. Tecnicamente sì, i cassetti del ministero del Tesoro sono pieni di misure in grado di mettere ordine nei conti dello Stato. È mentalmente che non riusciamo ad elaborare questo cambio di paradigma. Soprattutto è il discorso pubblico, quello della politica e dei partiti, che fatica a prenderne atto, se la correzione di un solo decimale di punto del deficit ha fatto vacillare la maggioranza. Veniamo, si diceva, da anni di vacche grasse. Un’epoca iniziata ben prima della pandemia, già con il governo guidato da Matteo Renzi e il bonus da 80 euro finanziato facendo deficit. Proseguita con il primo governo Conte e la scena dei ministri grillini a festeggiare sul balcone di Palazzo Chigi la fine della povertà grazie al Reddito di cittadinanza pagato, ancora una volta, facendo correre il deficit. Così come il pensionamento a 62 anni con Quota 100. Altro indebitamento. Fin qui reso possibile dalle maglie un po’ più larghe della Commissione europea dopo gli anni dell’austerity.

Poi è arrivata la pandemia con la sacrosanta necessità di salvare le persone e l’economia del Paese. Con le regole europee congelate, solo nel 2020, sono stati fatti oltre 100 miliardi di nuovo deficit, usati non solo per l’emergenza sanitaria ma anche per creare misure come il Superbonus, lo sconto sulla spesa (ricordate il cashback accreditato dallo Stato direttamente in banca?), comprare banchi a rotelle e finanziare l’acquisto di monopattini. Poi la crisi energetica ha costretto lo Stato ad intervenire a sostegno dei cittadini con i contributi per le bollette e la benzina. Ma è stata anche l’occasione per alleggerire le tasse e aumentare gli stipendi tagliando i contributi. Sempre a deficit.

Adesso che il conto arriva, e si preannuncia salato, vale forse la pena chiedersi cosa resterà al Paese delle centinaia di miliardi spesi in questi anni.

Se cioè, tutto il debito creato per finanziare le misure possa considerarsi, per usare una espressione di Mario Draghi, «buono». La risposta non può che essere negativa. Nessuno di questi interventi ha strutturalmente cambiato l’economia italiana. Non hanno mobilitato il capitale privato facendo da leva per una trasformazione produttiva. Ci troviamo indebitati ma nella situazione di partenza. Diverse misure sono durate meno dei governi che le hanno introdotte, dando vantaggi ad alcune categorie di cittadini non di rado coincidenti con la base elettorale del partito che le ha volute. E gli elettori si sono ormai assuefatti alla promessa di prebende. Il risveglio rischia di essere duro. «Avremo una calda estate fiscale», ha detto ieri il Commissario europeo Paolo Gentiloni. Difficile dargli torto. Quella dell’Italia sarà bollente. La prossima manovra parte in salita, con 20 miliardi da trovare per rifinanziare tutte le misure in scadenza a fine anno, a partire dal taglio del cuneo sulle buste paga. Andranno fatte scelte che potrebbero risultare difficili, perché la stagione del deficit è finita. Una via d’uscita c’è. Più che sulla spesa, che andrà ridotta, bisognerebbe puntare sulle riforme, proseguendo la strada battuta con il Pnrr, in grado di aumentare il potenziale dell’economia italiana e garantire una crescita duratura in futuro. Un impegno che va preso soprattutto con le giovani generazioni che con il loro lavoro e le loro tasse, saranno chiamate a ripagare il debito. Ma è meglio iniziare da subito a raccontare ai cittadini che il tempo delle vacche grasse è finito. E magari fare una seria riflessione condivisa tra le forze di maggioranza e di opposizione, sull’uso dei soldi pubblici in questi sette anni. Soldi di cui lo Stato non disponeva e che sono stati presi a prestito.

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