Mario Ajello
Mario Ajello

L'editoriale/ L’Italia del Salone e quella del caos

di Mario Ajello
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Mercoledì 15 Maggio 2024, 00:19

Quale tra le due Italie che si mostrano in queste ore è quella vera? Quella della protesta anche violenta delle università e della contestazione alla ministra Roccella? O quella del Salone del Libro, che si è appena chiuso, e che per una volta ha saputo unire destra e sinistra senza guerre ideologiche fuori tempo e senza insopportabili censure? La sensazione è che siano vere tutte e due. Rappresentano due facce, una negativa e l’altra no, di una stessa comunità. Da una parte sta l’irresponsabilità e l’arditismo non solo studentesco ma anche dei docenti demagoghi, che giustificano e proteggono le proteste. Dall’altra la sorprendente curiosità di un mondo finora dominato dalle pregiudiziali del politicamente corretto, quello della fiera editoriale torinese, che lo scorso anno contestò la presenza del ministro Roccella e le impedì di parlare, e che quest’anno invece ha accolto Salvini, Sgarbi, Sangiuliano e Valditara, e si è confrontato con loro, anche nel legittimo dissenso. Fino al punto di riconoscere che un volume come quello del meloniano Alessandro Giuli, presidente del Maxxi di Roma, intitolato «Gramsci è vivo», non sia uno scippo intollerabile o un attentato della presunta nuova egemonia contro la vecchia, ma solo un contributo culturale da non demonizzare a priori.

Se poi si va a fondo, si scopre che le due Italie convivono una a fianco all’altra anche all’interno dello stesso microcosmo. All’Università La Sapienza non più di trecento giovani hanno montato da giorni le tende della protesta, assediano il rettorato e mettono il silicone nei portoni degli uffici supremi dell’ateneo, rompono qualche vetrina qua e là, imbrattano i muri con scritte minacciose, si muovono come padroni nella città degli studi, impedendo agli altri la libertà di movimento e il diritto all’istruzione, e per di più molti di loro non sono neppure iscritti all’università. Provengono dai centri sociali, qualcuno dalle associazioni di lotta palestinesi, qualcun altro è un attempato reduce delle battaglie paleolitiche dell’anti-fascismo militante che si vorrebbe rispolverare perché «indimenticabili quegli anni!» (di piombo). Una regia della protesta sovrintende, da Roma a Pisa, da Padova a Milano, dall’università di Venezia appena occupata ad altre sedi accademiche assurte a simboli di un improbabilissimo revival del Sessantottismo in modalità distopica e marziana, ma con alcune caratteristiche di quello originale (i picchetti, la censura, le minacce, gli avvertimenti anche informali e confidenziali ma profondamente irricevibili ai pochissimi professori che osano alzare un sopracciglio: qui comandiamo noi).

In questa Italia Intifada, gruppuscoli di pochi fanno paura ai molti che, in un clima di allarme, continuano però l’attività didattica nelle aule. Quello che colpisce è che la maggioranza degli studenti (120mila iscritti a Roma contro le poche centinaia di manifestanti) e soprattutto la maggioranza dei docenti (qualcuno per demagogia giovanilistica e nostalgia militante giustifica e appoggia gli antagonisti, ma i più tacciono e si nascondono) condividono la linea del non intervento, nell’attesa che si attenui la protesta.

Le autorità accademiche, locali e nazionali, evitano di esporsi; il corpo docente pratica l’attendismo che si conferma uno dei più resistenti caratteri nazionali; la politica sta ben attenta a promuovere interventi repressivi, per non essere accusata di reprimere il dissenso, e finge di non vedere ciò che accade per evitare di legittimare una contestazione che altro non cerca che visibilità mediatica.

È come se un’intera comunità, tanto nelle reazioni istituzionali quanto in quelle dell’opinione pubblica più avvertita, accetti di camminare sul filo. Sul filo di una situazione molto delicata, che può degenerare da un momento all’altro. Ma un simile delicatissimo equilibrio pare più conveniente di qualunque mossa, che rischi con una reazione chimica di far tracimare un’Italia sull’altra, facendo sì che la rissosità mediatica diventi anche la grammatica della realtà, soprattutto in un clima elettorale che su queste scintille è sempre pronto a spargere benzina.

Così l’Italia verbosa, irrispettosa e violenta scorre parallelamente all’Italia prudente, laboriosa, matura e anche esausta della prima, che ha deciso di non parlare per non sentire e di sopportare per non degradarsi. Il fotogramma di questa geografia sociale mostra un’effervescenza di superficie che si infiamma nello scontro e che avvolge, nascondendola, una dimensione più autentica e profonda di un Paese assai più pacificato di quanto possa apparire. Come nella «grande bonaccia delle Antille», per parafrasare una metafora di Italo Calvino, l’Italia che vuol cambiare fa i conti con una irrisolta fragilità. Il presente, ma anche il suo futuro, sta nel successo di una passeggiata sulla fune.

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