Alessandro Campi
Alessandro Campi

L'editoriale/ E se la cura dell’Italia fossero i partiti?

di Alessandro Campi
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Lunedì 13 Maggio 2024, 00:23 - Ultimo aggiornamento: 07:12

Gli equilibri delle democrazie contemporanee, sempre più strette tra conflitti armati diffusi, instabilità economica globale, squilibri sociali crescenti e montante apatia di massa, sono assai fragili e precari. Quelli della democrazia italiana, per ragioni tutte interne al suo modo di essere e funzionare, lo sono ancora di più, come si vede dalle cronache di queste settimane.
In tutti i sistemi competitivi, come si sa, un fattore fisiologico di tensione è rappresentato dalla scadenza del voto: in prossimità di un appuntamento elettorale è normale che il clima si surriscaldi. Ma il confronto aspro tra leader è spesso un necessario gioco delle parti: ci si divide senza però pensare che l’avversario sia per davvero un nemico da abbattere ed eliminare.
In Italia, invece, ogni appuntamento alle urne da trent’anni assume le forme di un’ordalia, di uno scontro tra il Bene e il Male. La posta in gioco sarebbero, ogni volta che gli italiani sono chiamati a esprimersi, la libertà e la sopravvivenza stessa delle istituzioni democratiche, non un normale cambio di maggioranza. Il che finisce per giustificare, ben oltre la normale dialettica tra le parti, ogni genere di accusa, insulto, insinuazione o allarmismo. Muro contro muro, non per convenzione da campagna elettorale, ma per convinzione ideologica e settarismo.

Ma quanto può resistere una comunità politica il cui tessuto venga sottoposto, ad opera degli stessi che dovrebbero garantirne l’unità e la solidità, a continue lacerazioni?

Sta accadendo anche stavolta, in prossimità del voto europeo (senza dimenticare alcune importanti tornate amministrative). La distanza tra i partiti è siderale su praticamente ogni questione, domina un clima di reciproca delegittimazione, ci si accusa delle colpe peggiori. La causa di tale clima, si dice, è dei conflitti armati in corso, che favoriscono la radicalizzazione delle posizioni e l’incomunicabilità tra i leader.

Sennonché proprio la delicatezza del quadro geopolitico richiederebbe, al contrario, un clima più dialogante tra le forze politiche e, soprattutto, la convergenza di quelle maggiori e più responsabili sulle questioni attinenti il ruolo e il posizionamento internazionale dell’Italia. Visioni alternative di politica estera non sono, a livello di grandi partiti, un indice di pluralismo, ma un segnale di confusione: indicano che ci sono pezzi di classe politica dei quali sarebbe meglio non fidarsi.

Fisiologico, nel senso di ricorrente, puntuale e persino un po’ scontato, è diventato in Italia anche l’intervento nel gioco politico, sempre nelle fasi più calde e decisive, della magistratura. Un copione destinato inevitabilmente, anche stavolta con i fatti di Liguria, ad acuire la tensione tra le parti (e all’interno delle parti) e a produrre una condizione obiettivamente destabilizzante: a livello di vita istituzionale e di opinione pubblica.

Se, infatti, l’obiettivo ideale perseguito dalla magistratura è stato, da trent’anni a questa parte, la moralizzazione di un sistema politico-istituzionale giudicato intimamente corrotto, quello reale conseguito sembra essere stato la sua costante rimessa in discussione e la sua complessiva delegittimazione.

Al tempo stesso, decenni di inchieste, arresti e processi contro le malefatte dei politici, se hanno avuto come intenzione virtuosa quella di risvegliare il civismo e il senso di giustizia dei cittadini, affinché riprendessero nelle loro mani la guida della vita pubblica, come risultato traviato hanno prodotto un diffuso risentimento sociale e una strutturale disaffezione verso ogni forma d’autorità costituita. Se ne sono avvantaggiati, da un lato, lo spirito di rivolta antipolitica, base d’ogni populismo, e dall’altro il disincanto che porta all’astensionismo.

Aggiungiamoci, da ultimo, un clima di contestazione sociale diffusa che in Italia sembra presentarsi con caratteri quasi paradossali.

Nel senso che non si sono mai visti così tanti scrittori, intellettuali e giornalisti mobilitarsi per denunciare in televisione, sui giornali, alla radio, in ogni possibile festival o evento culturale l’esistenza di un clima di intollerabile censura nei loro confronti ad opera del governo in carica. Sembra, messa così, quasi uno scherzo ben architettato: presentarsi come condannati al silenzio mentre si dispone di ogni possibile tribuna per parlare e dire la propria. Che in Italia ci sia un clima illiberale bisognerebbe raccontarlo, senza ridere, a chi vive per davvero in contesti autoritari e repressivi del dissenso.

Ciò detto, se questi sono i fattori che stanno creando qualche problema alla maggioranza di governo, ivi compresi alcuni dissapori tra le sue componenti interne, resta il fatto che essa non ha all’orizzonte alcuna alternativa credibile e praticabile. Non solo, ma su di essa – al netto dell’interventismo della magistratura o del vittimismo a comando di un pezzo del ceto intellettuale – pesa in questo momento una grande responsabilità politica riguardo almeno tre grandi questioni.

La prima: mantenere saldo l’ancoraggio internazionale dell’Italia sul piano delle alleanze e dei doveri che ne conseguono, senza lasciarsi intimorire da proteste e mobilitazioni di piazza tutte ideologiche e strumentali. La seconda: tenere sotto stretto controllo l’andamento del debito pubblico, premessa per ogni azione di rilancio economico (compresa la progettualità legata al Pnrr). La terza: portare a compimento le riforme che il Paese attende da decenni.

Ma il vero problema, come accennato, sono le fibrillazioni della democrazia italiana, non quelle, peraltro assai enfatizzate, del governo in carica. Fibrillazioni la cui causa profonda è stata e rimane la debolezza organizzativa e progettuale dei partiti, che della democrazia, come sappiamo per dottrina ed esperienza, sono la maggior garanzia di stabilità: deboli loro, debole l’intero sistema.

La questione della rinascita dei partiti come premessa di una sana dialettica istituzionale è annosa, ma passato il prossimo appuntamento elettorale meriterebbe di essere affrontata seriamente. Al di là di una deriva personalistico-mediatica che sembra averli accomunarli tutti in questi anni, e che in parte spiega certe loro gracilità e contraddizioni, esistono infatti delle condizioni generali che inducono a qualche ottimismo. I partiti italiani sono più strutturati di come vengono rappresentati o percepiti.

Fratelli d’Italia, ad esempio, è un partito che nasce da una solida base militante e da un nucleo forte di cultura politica condivisa: un misto di politica di professione e comunitarismo su base generazionale. La Lega vanta uno storico radicamento territoriale nel Nord e rappresenta da sempre interessi sociali ben definiti: è una forza capace di grandi mobilitazioni e con un vivace pluralismo interno. Il Partito democratico, aggregatore del progressismo nazionale, ha una struttura fatta a sua volta di robusti apparati e di correnti che rimandano ad antiche tradizioni culturali. Forza Italia, non potendo più vivere solo grazie al carisma del fondatore, si è normalizzata come forza politica di stampo liberal-moderato. Una normalizzazione che ha riguardato anche il M5S dopo che Giuseppe Conte ne ha assunto il controllo facendone un partito di sinistra a vocazione statalista-redistributiva.

C‘è insomma la possibilità che i partiti italiani, non più additati come causa d’ogni male anche se ancora spesso visti con sospetto, si ricostruiscano su basi nuove, tornando ad essere i protagonisti principali del gioco democratico, considerato che le alternative movimentiste, leaderistiche o tecnocratiche con cui si è pensato di sostituirli sono tutte variamente fallite nel corso degli anni. Sarà questa la principale sfida del prossimo futuro politico.

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