Divorzio, mezzo secolo dal referendum. Giuseppe De Rita: «Volevamo la libertà, a non capirlo furono i partiti»

Il sociologo fondatore del Censis: «Il divorzio era già nelle coscienze, diventato normalità anche grazie ai film americani»

Giuseppe De Rita
di Mario Ajello
10 Minuti di Lettura
Sabato 11 Maggio 2024, 23:52

Giuseppe De Rita, lei ha sempre detto che in Italia la società prevale sulla politica e la trascina. È stato così nel 1974? 
«Ma certo: il referendum sul divorzio e la vittoria del no sono stati un fatto di dominanza sociale. La società voleva liberarsi, e già aveva abbondantemente cominciato questo processo, dei vincoli precedenti e stava da tempo puntando per la prima volta al desiderio di affermare la cura delle esigenze soggettive. Ma non in maniera strettamente individualistica e minoritaria. Tutt’altro. Il divorzio non è stata la vittoria di una minoranza illuminata che era più avanti degli altri».
È stato invece il segno di una egemonia sociale? 
«Quel fenomeno, il divorzio, era già ampiamente diffuso nella coscienza e nei bisogni dei cittadini. E lo era indipendentemente, e anche a dispetto, dei partiti. La politica non aveva voglia di fare il referendum, la Dc e il Pci erano contrari. Sfuggiva loro che il divorzio fosse un desiderio collettivo, non erano convinti che rappresentasse un passo avanti del Paese. Pensiamo a tre cose. La prima. Quanto ha giocato in maniera determinante il paradigma americano. Nei cinema e anche nelle sale parrocchiali, l’italiano medio vedeva sullo schermo personaggi che divorziavano, vedeva che il divorzio era normale e che la famiglia nessuno la difendeva più di tanto nei film degli anni ‘50 e ‘60». 
Sta dicendo, ed è una tesi curiosa, che abbiamo voluto scimmiottare i divi di Hollywood?
«Noi oggi ci diciamo che è meglio che i bambini non guardino in tivvù i cartoni animati giapponesi con la violenza o i film pieni di botte e di sangue. Non vorremmo farglieli vedere perché temiamo che possano scatenare fenomeni di imitazione. Questo è il punto. Si diffuse a livello di massa l’idea: ma se divorziano gli americani, perché non possiamo farlo anche noi?». 
La seconda motivazione che portò alla vittoria del no? 
«Avevamo una cultura familista, troppo tradizionale, che si stava indebolendo. Il divorzio è stato considerato l’opportunità per dare la mazzata finale a questa mentalità asfittica e già morente. Guardi, le dico una cosa che contrasta con la vulgata secondo cui Amintore Fanfani, alfiere della lotta anti-divorzista e oltranzista di una cultura in declino, aveva dietro di sé tutti i cattolici. Non li aveva affatto. Molti cattolici e tutti i miei amici, penso ad Achille Ardigò, a Leopoldo Elia, a Pietro Scoppola e a infiniti altri, consapevoli della società in trasformazione votarono no». 
Anche lei? 
«Io non ho votato. Nel ‘67-‘68 ho cominciato a fare i rapporti Censis. Tramite i quali ci stavamo accorgendo che stava arrivando la soggettività, che si stava affermando la volontà del singolo di essere autonomo dalle regole tradizionali. Ero in pieno fervore da studioso. E volevo mantenere la mia posizione da osservatore tecnico dei fenomeni sociali. Ovviamente ero per il no, ma ho preferito restare personalmente fuori dalla contesa. Anche se tutti mi consideravano, con eccesso di semplificazione, una sorta di pasdaran di sinistra». 
Lei? Proprio lei? Incredibile! 
«Negli anni ‘70, alcuni consiglieri del Cnel – a cui venivano consegnati i rapporti Censis – che rappresentavano la Confindustria, ma anche alcuni che rappresentavano i sindacati, mi definirono un autonomo bianco. Ossia una specie di pericoloso sovversivo equiparabile agli autonomi rossi e violenti che a quel tempo spadroneggiavano. Ora viene da ridere, ma allora il clima era quello. In ogni caso, l’Italia è stata una grande fucina di soggettività, ovvero quello che vale è il mio comportamento, e la vittoria referendaria veniva da una storia dell’Italia del dopoguerra in cui la soggettività aveva significato rifarsi la casa autonomamente e senza avere regole, per poi portare le spese all’ispettorato del ministero dei Lavori Pubblici e lo Stato senza preoccuparsi di niente pagava. Quella del mi rifaccio la casa come voglio e dove voglio è stata la prima saga collettiva a spinta individuale. La seconda è stata l’immigrazione. E la terza, negli anni ‘70, è stata quella dell’economia sommersa, dei piccoli imprenditori che si moltiplicavano, che non pagavano le tasse, che inquinavano i fiumi, se ne infischiavano del rispetto dei territori e facevano il cavolo che gli pareva. Tutti volevano sfondare. Tutti insieme ma ognuno per sé». 
Questa è la società che si era predisposta a votare no? 
«Il referendum è stato la quarta saga degli italiani a motore individuale. In mezzo c’è stato il ‘68. Lo abbiamo successivamente visto nelle sue conseguenze penali: il terrorismo. Ma era cominciato come un tentativo di rivalutare la cultura individuale contro il consumismo». 
Quindi il ‘74 come effetto del ‘68?
«No. Perché il ‘68 sarebbe stato presto rapito da una minoranza oltranzista. E l’oltranzismo non è maggioranza ed è destinato a perdere. La battaglia per il divorzio è stato l’opposto. Fu un’onda di maggioranza che sconfisse l’oltranzismo minoritario rappresentato da Fanfani». 
Vede un parallelo tra le attuali proteste studentesche e quelle del ‘68?
«È un’equiparazione completamente sballata. Il ‘68, che pure era minoritario, fu fatto dai migliori. Magari sbagliavano, ma erano un’élite di qualità che riuscì a portarsi appresso i lavoratori. Qui siamo invece alla cultura del palestinese». 
Cioè?
«Una cultura puramente emotiva, uno sbandieramento di un fazzoletto. Ogni generazione ha il gusto della devianza. E questa generazione non fa eccezione. Ma i ragazzi che ora occupano gli atenei li vedo interessati più che altro a farsi riprendere dai media. I media hanno bisogno di loro e loro hanno bisogno dei media. È una protesta rivolta ai palinsesti e alle pagine di cronaca dei giornali. Loro vogliono essere amplificati, pur rappresentando un fenomeno assolutamente minoritario, e i media vogliono amplificarli perché tocca riempire il rullo delle notizie. A un certo punto, si deciderà che non interessano più e si passerà ad altro. Negli anni di piombo, una minoranza cercò di forzare la politica facendosi forte di un certo consenso sociale, questi ragazzi invece vanno a fischiare la Roccella e poi si tuffano in uno spritz in qualche bar del centro». 
Perché oggi non facciamo che parlare di censura? 
«Perché, in passato, a censurare erano i grandi datori di senso: lo Stato, la Chiesa. Oggi, in assenza di autorità, tutti pensano di essere datori di senso e di avere la facoltà di zittire gli altri. La ragazzetta che sventola il drappo Free Palestine all’università si sente latrice di senso. Pensa di essere significante. Nel ‘74, questo non c’era. Gli unici che pensavano, e a ragione, di dare senso erano i radicali. Pannella sapeva che il suo carattere minoritario si stava incontrando con i fenomeni sociali. Quella élite borghese non ha trasformato la società, ha capito che poteva cavalcare il cambiamento reale in corso nel Paese. Oggi nessuno dà retta alle minoranze filo-palestinesi perché da un lato rappresentano le classiche devianze generazionali e dall’altro lato sono fuori dal reale ma non sono fuori dal circuito mediatico. Se i movimenti vogliono nascere sull’onda dell’opinione e o sulla pubblicità non ce la fanno. Serve un vincolo forte con la realtà. Quella che manca nelle proteste di questa fase». 
Loris Fortuna, che fu grande artefice della battaglia del ‘74, diceva: «Per me la famiglia è il bene e il divorzio è un male. Ma è un rimedio». Aveva torto o ragione? 
«Parole perfette le sue. E la gente la pensava esattamente come lui. Questo approccio, secondo me, vale anche per l’aborto. Vale per l’eutanasia. I rimedi vanno bene, se proprio bisogna farci ricorso, ma non devono diventare ideologia. Se questi mezzi diventano ideologia, significa che sono finiti nelle mani di una minoranza che li fa diventare verità assolute e tutto di complica». 
Gli intellettuali furono avanguardie seguite nel ‘74 e oggi sono finti partigiani o buffoni da talk show e da festival dell’antagonismo. Perché questa decadenza? 
«Perché non è riuscito il passaggio dalla piccola borghesia alla borghesia. Io mi auguravo che avvenisse e mi sono sbagliato. Aveva invece ragione Pier Paolo Pasolini che sosteneva che l’evoluzione non ci sarebbe stata. Oggi ci ritroviamo in un Paese piccino, in questa piccineria domina il presentismo e la borghesia inesistente e gli intellettuali non rappresentativi di nulla sono parte di questo handicap. Il presentismo è il primato dell’opinione quotidiana rispetto alla progettualità. Noi non sappiamo parlare di futuro. Siamo autori e commentatori dell’emozione del momento. O, peggio, di quella del passato». 
In questo presentismo, i diritti diventano pretese? 
«I diritti nessuno li nega. Ma se i diritti sono i diritti dei diritti dei diritti dei diritti, si arriva all’oltranzismo intellettuale. Che è inutile e controproducente. I cittadini provano fastidio per la cultura dell’oltranzismo. Ormai si vuole mettere in Costituzione qualsiasi diritto possibile e immaginabile. Anche il diritto che riguarda 500 persone lo si considera un principio fondamentale della Repubblica e dell’umanità. Ma quelli non sono diritti, sono bisogni. Che è un’altra cosa. Lo sa che cosa diceva un mio maestro, Giorgio Sebregondi?». 
No. 
«Raccontava sempre che alla fine degli anni ‘40 all’Ansaldo si lottava per il diritto all’ovetto». 
Un regalo aziendale per Pasqua?
«Macché, i lavoratori volevano un uovo sodo da consumare ogni giorno e chiedevano che questo diritto fosse messo nel contratto. Ecco, adesso siamo al trionfo della cultura dell’ovetto. Anzi, alla religione dell’ovetto. Peccato soltanto che non possiamo mettere l’ovetto nella Costituzione. L’oltranzismo da ovetto è la cifra dominante nell’Italia odierna. E l’oltranzismo è un disturbo della normalità e della fisiologia dei rapporti sociali». 
Anche la politica è vittima del presentismo?
«I politici stanno a guardare l’onda. Parlano e si muovono in base a quella. Abbiamo bisogno di altro. Ossia di una politica che ragioni di processi reali e non faccia surf sull’onda dell’opinione».
Posso dirle la verità? Mi sembra troppo catastrofista. 
«Lei si sbaglia. Oggi c’è un valore fondamentale che può consentirci un futuro. È quello della relazione. Vale nel matrimonio, nel rapporto con i figli, nel lavoro, in ogni contesto sociale. Abbiamo perduto la capacità emozionale del fare relazione. La crisi della relazione è stata accentuata dal vaffa di Grillo, il quale colse il nostro rifiuto quotidiano dell’altro e soprattutto, nel caso grillino, della politica. Il filosofo Emmanuel Lévinas ha citato un versetto ebraico del Talmud che dice: le colpe verso Dio ti saranno perdonate, le colpe verso gli altri invece non ti saranno perdonate perché sono ben più gravi. Occorre rilanciare l’aspetto relazionale. La relazione con l’altro è tutto e da questa dipende il nostro futuro. Sta a noi metterci d’impegno. Ma le dico anche un’altra chiave del futuro». 
Far rivivere in noi stessi quella spinta che produsse il miracolo italiano dagli anni ‘50 e che portò un Paese di sottoproletari a diventare un Paese di borghesi anzi, come piace dire a lei, di piccoli borghesi? 
«Io credo che le acque immobili di questa palude stagnante che è oggi la società italiana possono essere agitate da un rilancio delle virtù civili, che partono dal profondo della nostra coscienza e non da semplici pulsioni individuali. Serve la ricerca costante di una rete di connessioni con gli altri, di un noi che comprenda l’io. Occorre un desiderio di energia magnetica, una tensione in avanti con la riscoperta di radici comuni, di appartenenza, di identità, di orgoglio nazionale. C’è un ottimo libro di Roberto Calasso, intitolato L’ardore, in cui si racconta della civiltà vedica, apparsa più di tremila anni fa nel Nord dell’India.

L’ardore, per gli appartenenti a quella antica civiltà, era il motore di tutto. Può essere così anche per noi. Senza ardore non c’è pensiero e non c’è vita. Per uscire dalla palude e dall’immobilismo, abbiamo bisogno di qualcosa che brucia dentro di noi. Non servono intuizioni profetiche, anche perché profeti in giro non se ne vedono, ma dobbiamo contare sulle leve di forza che custodiamo nel dna di un popolo e che possono riaccendersi in qualsiasi momento. E chissà che nel fuoco del cambiamento non prenda corpo e si formi quella borghesia di cui oggi siamo orfani e la cui assenza sentiamo come un vuoto nel quale l’Italia è sospesa. Andare oltre veramente significa mettersi in gioco con ardore e creatività sociale, sennò tutto si risolve in presentismo e in oltrismo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA