Wim Wenders, dal cinema alla pittura e viceversa: «I miei paesaggi di civiltà»

Wim Wenders, dal cinema alla pittura e viceversa: «I miei paesaggi di civiltà»
di Angela Maria Piga
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Venerdì 17 Aprile 2015, 23:59 - Ultimo aggiornamento: 22 Aprile, 20:47

«Nei film racconto una storia, nelle fotografie sono i luoghi a raccontarmi la loro» afferma Wim Wenders. Il regista e fotografo tedesco, reduce dal Leone d'Oro alla Carriera alla Berlinale 2015 e dalla retrospettiva cinematografica al MoMA di New York, è all'apertura della mostra “Landscapes. 4 Real & True 2” realizzata al Museo Kunstpalast nella sua città natale, Düsseldorf, in occasione dei suoi 70 anni. Fino al 16 agosto, sarà visibile l'opera omnia di 30 anni di fotografia: 80 scatti di grandi dimensione, fatti senza cavalletto né luci artificiali, e solo con la macchina analogica, per cogliere la realtà così com'è, vera, come ci si presenta.

Nelle fotografie emerge in tutta la sua forza la prima fonte di ispirazione di Wenders: la pittura. Wenders infatti optò per il cinema nel 1967 dopo aver provato senza successo ad entrare all'Accademia d'Arte di Düsseldorf.

Nei suoi scatti, resta l'attitudine pittorica al colorismo e alla luminosità, come nella fotografia dedicata proprio a un pittore, l'americano Andrew Wyeth, che s'ispirò, anziché al cinema come Edward Hopper (altra musa di Wenders), a Dürer e a Michelangelo.

Anche per lei la pittura fu all'origine di tutto.

«Quando ero bambino qui (a Düsseldorf, ndr), il 90% era distrutto dalla guerra.

Ero circondato da macerie e bruttezza. Nel bilocale dove dovemmo trasferirci coi miei, c'erano poster da poco, con riproduzioni di dipinti di paesaggi francesi e olandesi. Per me questi poster erano l'unica cosa in cui il mondo poteva non essere del tutto devastato, ma bello, e intatto. Quando andai per la prima volta al Rijksmuseum di Amsterdam ero come in paradiso. Non è stata né la fotografia né il cinema a formare in me l'idea di bellezza, ma quei primi quadri».

Eppure ha fotografato molti luoghi distrutti dall'uomo, come Ground Zero, i cui scatti sono esposti qui per la prima volta, in una piccola sala raccolta.

«Venni sconvolto dalle immagini dell'attentato alle due torri. Mi tormentarono per giorni, settimane. Caddi in depressione. L'unica cosa che poteva aiutarmi era vedere quel luogo davvero. Arrivato a New York, il sindaco aveva chiuso tutta l'area. Era giusto: la zona era un luogo di dolore, e un cimitero, cercavano ancora resti di vittime. Fu l'unico fotografo autorizzato, Joel Meyerowitz, a consentirmi di accompagnarlo, in mezzo agli operai che ormai lo conoscevano bene. Arrivammo sul posto all'alba, in autunno. C'era ancora fumo, e un odore tremendo, portavamo la maschera. Fotografammo insieme per ore. A un certo punto, e solo per un paio di minuti, arrivò il sole. Era impossibile in quel periodo, a causa dei grattacieli attorno. Ma il sole era sceso su Ground Zero riflettendosi dal vetro di un grattacielo vicino. Fu un momento incredibile, ci fermammo, neanche Joel aveva mai visto una cosa del genere. Io feci quei pochi scatti esposti».

Perché ha scelto questi?

«All'improvviso il luogo si era trasformato in qualcosa di diverso, una bellezza irreale. Forse non la si può chiamare bellezza, ma quella luce fu prodotta dal luogo. E fu prodotta per dire che Ground Zero poteva, col tempo, risanare la propria ferita, e che nessuno avrebbe dovuto usarlo come pretesto per spargere più sangue. Per questo lo fotografai: Ground Zero avrebbe potuto portare a cambiare la storia del mondo verso la pace. Invece la politica portò avanti la guerra contro il terrorismo, che creò solo nuovo terrorismo».

Distrutti o abbandonati, nei suoi luoghi l'uomo non c'è mai. Perché?

«Restano comunque visibili le sue tracce. Io faccio fotografie di persone, ma in loro assenza. Le persone che hanno popolato o vissuto i luoghi che fotografo sono sempre lì, e quei luoghi raccontano di loro, a noi. Non sono un fotografo di paesaggi, non mi interessano i paesaggi, ma quello che dicono della nostra civiltà».

Cosa ha imparato il fotografo Wenders da Sebastião Salgado, a cui ha dedicato il documentario “Il sale della terra” (2014)?

«Non potremmo essere più diversi, io vengo dalla pittura, la mia idea di fotografia guarda alla cornice, al paesaggio, e come ho detto prima è per me un luogo di pace e bellezza. Salgado ha un background economico, veniva dalla Banca Mondiale, è stato un fotografo sociale per tutta la vita. Da lui ho imparato che ogni fotografo deve guadagnarsi il diritto di scattare una fotografia e Salgado si è meritato ogni scatto, entrando in empatia con il luogo, dove restava, mesi e mesi, in relazione con le persone che fotografa, vivendo con loro. Da lui ho imparato anche che esiste un termine per essere un fotografo. Lui ha chiuso dopo gli eventi del Ruanda, e ha avuto il coraggio di farlo».

E come si guadagna il diritto di scattare Wim Wenders?

«Fotografo solo luoghi che mi piacciono, non scatterei mai fotografie senza avere un'affinità, perché le relazioni esistono anche con i luoghi. Per questo passo del tempo con loro, tornandoci, aspettando, alcuni luoghi si ritirano, altri ti parlano subito. E il diritto me lo guadagno perché sono un visitatore amichevole».

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