Il killer di Palagonia fantasma anagrafico partorito dai Cara

di Paolo Graldi
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Giovedì 3 Settembre 2015, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 00:10
Un dettaglio rilevato dall’analisi della scena del crimine, il massacro di Palagonia, illumina un’ipotesi agghiacciante: la rapina ai coniugi Solano era stata congegnata perché finisse nel sangue. Vincenzo Solano è stato infatti colpito nel sonno e solo dopo la moglie si è vista strappare di dosso gli abiti della notte insieme con la vita, buttata giù dal balcone. Perché nel sangue? Perché, in questo come in tanti altri casi, gli autori della feroce aggressione contavano su un fattore ancora non abbastanza esplorato, cioè la convinzione di non venire mai identificati. Soltanto qualcosa che si potrebbe descrivere come una premonizione sensoriale, un sospetto impalpabile che si è trasformato in brivido di paura, ha indotto la soldatessa di servizio all’ingresso del Cara di Mineo a concentrarsi su quel borsone, troppo inutilmente capiente, spingendola a chiedere di controllarne il contenuto. Chi le stava di fronte, una robusto ragazzo di colore, poi si è scoperto trattarsi di Mamadou Kamara, 18 anni, ivoriano, al centro di accoglienza da parecchio tempo. Lui non voleva mostrare niente. Aveva ciabatte ai piedi, pantaloni larghi inusitati e una maglietta con una scritta pubblicitaria: pareva tranquillo, quasi sicuro di sé, finché un ispettore della polizia lo ha indotto ad aprire quella sacca e così s’è scoperto che conteneva un telefonino, una cinepresa, un computer portatile, oggetti d’oro. La refurtiva, appunto, il premio insanguinato di quel viaggio nella vicina Palagonia.





Da quegli istanti tutto è stato terribilmente facile per gli investigatori: con il cellulare sono risaliti alle vittime e poi a tutto il resto. Intervistato da una tv, uno dei tanti “pareri” al volo, un signore con voce tagliente ha messo la sua sentenza: «Vengono qui mansueti, a capo chino, poi si orientano, si guardano intorno e non si sa più che cosa può accadere: noi, intanto, ci barrichiamo in casa».



In queste poche frasi, volutamente minacciose, si racchiude, al di là del delitto che merita un discorso a parte, al di là della ricerca di tutti i responsabili (l’ivoriano aveva dei complici? Forse sì), si racchiude il danno incalcolabile che questi eventi producono nella già complessa, confusa e non di rado sconvolgente realtà dei flussi migratori. Là dove le strutture non sono ancora in grado di distinguere, in tempi ragionevoli, tra i richiedenti asilo, i profughi, i fuggiaschi, gli aspiranti a una vita migliore e tuttavia senza diritti da rivendicare, per finire a loschi figuri, fuggiti magari da qualche carcere libico che la guerra civile ha spalancato. Credere, convincersi di essere considerate entità senza identità, gli uni uguali agli altri, pressoché indistinguibili, capaci di muoversi senza documenti, senza mai essere stati identificati, fissati nei connotati in una memoria infallibile, produce in qualcuno la forza di avviarsi per le strade del peggio, sperando di uscire indenne. Chiamatela pure schedatura: tutti siamo legalmente e consensualmente schedati centinaia di volte durante la vita; chi siamo, dove viviamo, con chi comunichiamo, i beni di cui disponiamo sono tutti dati d’archivio accessibili in pochi secondi. Nessuno se ne meraviglia, tanto che se giriamo senza documenti a un controllo passiamo i guai.



La cortissima lungimiranza degli amministratori dei flussi, si può dire anche del governo, al fine di aggirare le tetragone leggi contenute nel patto di Dublino (chi viene identificato resta nel Paese che lo ha accolto per primo: leggi l’Italia) ha finora evitato le identificazioni per gran parte degli sbarcati creando in tal modo una imponente massa di fantasmi anagrafici. E qui si inserisce il contesto del Care, un luogo che le inchieste ora descrivono come infernale ma del quale, in molti e non a torto, chiedono la chiusura e che, comunque, s’avvia ad un commissariamento con augurabile riscrittura delle regole di vita interna e di permanenza.



Oggi, per adesso, ci sono le prove di situazioni di estremo pericolo che sconfinano nella prostituzione organizzata, nella creazione di clan con consolidate gerarchie, per sorvolare, almeno stavolta, sulle lucrose attività pseudo assistenziali legate agli appalti, venute alla luce con l’inchiesta su Mafia Capitale. Da quegli atti è emersa una trama criminale di sfruttamento intensivo del campo di accoglienza e dei suoi ospiti, accanto a lungaggini burocratiche che hanno innescato meccanismi di sopravvivenza malavitosa. Un limbo infinito nel quale chi ci è finito dentro e ha coltivato cattive intenzioni ha anche immaginato di poterle impunemente trasformare in ricchi affari propri. Sarà interessante e istruttivo, oltre alla dettagliata mappa delle responsabilità da perseguire, comprendere attraverso quali bagagli psicologici gli uomini e le donne accolti nel Cara hanno affrontato le nuove tranche de vie sulla nostra terra.



Qualcuno ha accarezzato l’idea di restare a lungo un fantasma, un ectoplasma senza identità, e dunque di poter progettare crimini della massima efferatezza sfuggendo alla rete a maglie larghissime dei controlli. Nessuno di questi nuovi venuti, assieme all’acqua e al cibo e a un letto ha ricevuto un libretto in diverse lingue d’origine (comunque facilmente traducibile dagli interpreti) nel quale sono elencati i diritti e i doveri di ciascuno, italiano e non italiano. Una cosa del genere la fecero i tedeschi dopo la guerra, consegnando pagine fredde come quegli anni, ai nostri immigrati. Si prescriveva, tra l’altro, l’obbligo di mettere le stringhe agli scarponi e di tenerle sempre allacciate. Obbligatoriamente. Altre temperie. E tuttavia, accanto alla crudezza delle imposizioni, quei decaloghi elencavano anche i (pochi) diritti. Nessuna nostalgia, per carità. Solo per dire che in un Paese dove tutti siamo tenuti a circolare con un documento di identità è per lo meno rischioso, altamente, fare eccezioni. Sapere chi siamo, reciprocamente, è un fatto rassicurante per tutti. Senza eccezioni, appunto.