La crisi Italia-India/ E ora risposte forti e chiare sul caso Marò

di Paolo Graldi
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Mercoledì 17 Dicembre 2014, 23:07 - Ultimo aggiornamento: 18 Dicembre, 00:18
Un autentico schiaffo, improvviso e imprevisto, l’esatto contrario delle aspettative del governo che fin qui s’è mosso con discrezione e cautela, ma intensamente.

Una amarissima sorpresa quella creata dal netto rifiuto della Corte Suprema indiana di concedere ai nostri due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone il permesso di trascorrere le vacanze a casa, dopo tre anni di tribolazioni e in attesa non di un processo ma di un semplice capo d’accusa, ancora di là da venire.



Una decisione che i ministri Gentiloni (Esteri) e Pinotti (Difesa) non hanno esitato a definire “inaccettabile” e che ha prodotto “irritazione e delusione” e la “ferma contrarietà” del capo dello Stato. Ma è l’imbarazzo, certo non dichiarato, che domina su tutto: che fare adesso? Il primo segnale, forte e chiaro, è stato quello di annunciare che Latorre non sarebbe ritornato in India: è un cittadino italiano malato e come tale verrà curato nelle nostre strutture sanitarie. Per ora, viene accuratamente evitata ogni ipotesi di strappi nelle relazioni diplomatiche, l’ambasciatore a Nuova Delhi Daniele Mancini sta rientrando a Roma per consultazioni, in attesa dei “passi necessari” verso le autorità indiane.



Passi che mettono in gioco “principi irrinunciabili di sovranità internazionale” ma ancora tutti da decidere, considerato anche che di tempo ne è trascorso tanto e in questa altalena si sono agitate molte parole con pochi risultati. Il caso dei due fucilieri di Marina tuttora genericamente accusati di aver sparato e ucciso da una nave italiana in acque internazionali due pescatori indiani del Kerala (febbraio 2012) riesplode così in tutta la sua deflagrante potenza. Gli sviluppi futuri sono imprevedibili, i tre anni trascorsi certo non rassicurano, minati come sono stati da ambiguità, finte disponibilità, traccheggiamenti di ogni genere, continui cambi di opinione e posizione, facilonerie che hanno contribuito a costruire la situazione che oggi si lamenta. Tutto sembrava filare liscio, le rassicuranti parole del procuratore generale avevano lasciato sperare per il meglio, magari anche solo in un prolungamento delle cure in Italia per Latorre (convalescente dopo un ictus) e un permesso per il periodo natalizio intestato a Salvatore Girone, parole subito raggelate dall’inflessibile presidente della Corte con un secchissimo no: “Dovrei farlo per tutti i detenuti, non se ne parla neppure”.
Qualcuno di certo deve aver capito male alimentando illusorie speranze, a meno che non si voglia affermare che gli indiani fanno, appunto, gli indiani. Il governo cerca di uscire dal ginepraio in cui è finito, cerca tra le forze politiche una risposta “ferma e unitaria” di appoggio alle iniziative che si annunciano tra breve: dalla estrema destra, per adesso, arrivano folate di insulti. C’è chi come Giorgia Meloni spende un elegante “cialtroni” mentre il suo collega di partito Cirielli vorrebbe Mario Monti, allora premier, incolpato di alto tradimento, per aver ordinato ai due fucilieri di rientrare quando potevano chiedere asilo politico in patria, allora provocando le dimissioni lampo del ministro degli Esteri Terzi di Santagata. Il comportamento delle autorità indiane, per l’intero arco della sconvolgente vicenda, si presta ad amare considerazioni, se appena si ricorda il balletto sulle imputazioni che comportano o meno la pena di morte, quello sul tribunale competente fino alla mossa di non riconoscere al nostro ambasciatore alcuna immunità diplomatica. Come dire: se i due militari non tornano, sarai tu l’ostaggio. Tra le vie da seguire si tende a dar credito al ricorso ad un arbitrato internazionale, soluzione già presa in considerazione dall’ex ministro Federica Mogherini e mai attivata, chissà perché, mentre si escludono decisioni che riguardano i nostri impegni militari all’estero, come qualcuno ha richiesto, e dove pure figura l’India tra le forze in campo. Il presidente della commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, ha proposto una “camera di concertazione o una cabina di regia” e il ministro Gentiloni farà propria l’idea giudicandola “seria e ragionevole”. Si sente il bisogno di compattezza per dare, almeno sul fronte interno, l’idea che il Paese si muove senza alzare polveroni ma con la necessaria determinazione. Ma è chiaro che le divisioni resteranno e il governo dovrà farvi fronte. I passi felpati di una segreta trattativa si sono interrotti svelando ancora una volta la qualità degli interlocutori. E da quelli, spezzati con fragore, si dovrà purtroppo ripartire. Camminando tra le macerie disseminate fin qui.