Un aeroporto per casa: dalla Cina a Madrid è boom di chi sceglie uno scalo per vivere

Un aeroporto per casa: dalla Cina a Madrid è boom di chi sceglie uno scalo per vivere
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Mercoledì 17 Dicembre 2014, 17:38 - Ultimo aggiornamento: 17:40
​Ne aveva già parlato Steven Spielberg in The Terminal, un film del 2004 interpretato da Tom Hanks, ispirato alla storia vera di un iraniano che aveva vissuto per 18 anni (18!) nello scalo internazionale “Charles de Gaulle” di Parigi. La domanda a cui il film cercava di rispondere era: cosa significa vivere in un aeroporto? Attenzione, non lavorarci come addetto delle pulizie o impiegato; non sostarci alcune ore, magari tra un volo e un altro, o solo pochi minuti, in attesa dell’imbarco o dell’atterraggio di un amico, un partner, un parente. No, niente di tutto questo. Cosa significa, letteralmente, vivere in un aeroporto?



La cosa potrà sembrare strana eppure accade, e neanche tanto raramente. Negli anni si sono contati numerosi casi di rifugiati, profughi, sans papier, attivisti o semplici individui privi dei documenti necessari per transitare in uno scalo. Erano incappati nelle maglie della burocrazia o si erano messi volutamente in status giuridici particolari o di difficile definizione. Le aree di transito degli aeroporti, infatti, non rientrano formalmente in alcuna giurisdizione nazionale; sono dei classici non-luoghi, come direbbe il sociologo francese Marc Augè.



Questa condizione ha permesso, o comunque reso più facile, che negli anni a diverse persone capitasse di restare bloccati nei terminal. Si va dagli episodi più famosi, come quello di uno dei protagonisti dello scandalo che ha coinvolto l’NSA statunitense, Edward Snowden (rimasto da giugno ad agosto 2013 nello scalo Seremet’evo di Mosca), a vicende meno conosciute ma a dir poco paradossali. Tra queste, c’è la storia di Feng Zhenghu, attivista cinese per i diritti umani, che nel 2009 rimase tre mesi nell’aeroporto di Narita, in Giappone, perché le autorità di Pechino non volevano farlo tornare in Cina, impedendogli in ogni modo l’ingresso nel paese. Nello stesso anno 16 rifugiati somali erano rimasti bloccati nel terminal F dello scalo Seremet’evo della capitale russa, in fuga dal proprio paese eppure non graditi alle autorità di Mosca - che si opponevano alla loro richiesta d’asilo. Alla fine la maggior parte ritornò in Somalia, gli altri furono accolti dall’UNHCR, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati.



Ma, al di là dei casi più problematici, vi sono anche le storie di chi sceglie consapevolmente un aeroporto come propria dimora. Nello scalo internazionale di Barajas, a Madrid, sono state contate circa 30 persone: si confondono tra le 110mila presenze quotidiane dell’aerostazione madrilena, camuffati da passeggeri. Alcuni sono bulgari, altri moldavi, li si riesce a vedere mentre si aggirano nei punti di ristoro, raccogliendo il cibo avanzato lasciato sui tavoli. Trascinano valigie e chiedono denaro, fingendo di essere incappati nel dramma di un aereo perso o di un passaporto smarrito.



C’è anche chi trascorre il giorno per le strade di Madrid e di notte, per sfuggire al freddo, si rifugia nell’aeroporto, dove l’attività è molto ridotta e si registra solo qualche partenza per il Sud America. Sono pensionati, con circa 300 euro al mese di pensione potrebbero permettersi una stanza o un albergo a buon mercato, ma preferiscono Barajas, un ambiente riscaldato, dove con due euro si può fare colazione e per 15 minuti al giorno il Wi-Fi dello scalo offre la connessione gratis a tutti. Anche a chi vive in aeroporto.
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