Strategie ai raggi X/ Crolla un muro ecco i vantaggi dei due leader

di Loris Zanatta
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Mercoledì 17 Dicembre 2014, 22:56 - Ultimo aggiornamento: 18 Dicembre, 00:51
Stati Uniti e Cuba tornano a parlarsi dopo cinquant’anni di gelo: già questo basterebbe a scolpire la data di ieri negli annali della storia.

Era nell’aria, in realtà, ma è probabile sia solo l’inizio. Può darsi che in futuro si ricorderà il 17 dicembre 2014 come l’inizio della fine dell’embargo che Washington impose a Cuba nel 1962 in ritorsione per le espropriazioni senza indennizzo di imprese e beni americani.



Di più: chissà che un giorno non ricorderemo questa data come quella in cui Cuba avviò la transizione alla democrazia; la democrazia ancora imberbe che Cuba perse in un remoto 10 marzo 1952, quando Fulgencio Batista rovesciò manu militari le autorità costituzionali; e che Fidel Castro non si sognò mai di restaurare, pur avendola promessa ai quattro venti quando combatteva sulla Sierra Maestra. Così fosse, i cinque anni passati in carcere a Cuba da Alan Gross, signore dallo sguardo mite liberato ieri in cambio di tre spie cubane, non saranno stati invano. Anche se la sua “colpa”, a ben vedere, era di avere connesso ad Internet i pc della comunità ebraica di L’Avana.



In un mondo dilaniato da follie fondamentaliste, il dialogo tra chi s’è odiato al punto, gli Stati Uniti, da sostenere la tentata invasione alla Baia dei Porci nell’aprile del 1961, o addirittura, Fidel Castro durante la crisi dei missili dell’ottobre 1962, da chiedere ai sovietici di lanciare contro Washington un attacco nucleare preventivo, è segno di speranza.



Segno che non è però bene sovraccaricare di soverchie aspettative. E che apre un nuovo scenario tutt’altro che scevro da pericoli. Una cosa è certa: dopo avere giocato per oltre cinquanta anni la stessa, stucchevole partita, Stati Uniti e Cuba ne avviano un’altra con nuove regole. Lo fanno per buoni motivi, ma anche perché la vecchia partita non ha portato a nulla. Gli Stati Uniti non hanno cancellato dalla faccia della terra il regime castrista come avrebbero voluto; e il regime dei Castro è lontano anni luce dal paradiso che alle sue origini promise d’essere. In realtà, il gioco secondo le vecchie regole era a suo modo rassicurante per tutti, tanto da fare a lungo pensare che a tutti facesse comodo: a Washington serviva per esibire le credenziali di paladina della democrazia al cospetto della sua opinione pubblica e di un emisfero dove Cuba rimane da alcuni decenni l’unica pecora totalitaria in un gregge democratico; per L'Avana era una manna poter indossare all’infinito i panni di Davide contro Golia scaricando sul famigerato embargo i fallimenti del suo scalcagnato socialismo. Ora, pare, si cambia.



Perché? E con quali prospettive?

Perché si cambia è presto detto. Obama ha bisogno di successi e clamore, subisce enormi pressioni di potenti lobbies ansiose di fare affari con Cuba e soprattutto sa quanto sia appannata la leadership degli Stati Uniti nell’emisfero americano, dove tutti, nessuno escluso, trovano ormai naturale avere normali rapporti con Cuba. Perché non rovesciare il tavolo aprendo a Cuba, con la scommessa che tale sarà la miglior via per piegare il castrismo e portare l’isola all’ovile panamericano, ossia alla democrazia politica e all’economia di mercato? Ma Raúl Castro ha ancor più motivi per accettare la mano tesa di Obama e tendergliela a sua volta, benché sappia bene il rischio che così si assume: la scomparsa dell’alibi dell’embargo lascerebbe la sua Cuba nuda dinanzi al mondo, e non è un bello spettacolo ciò che mezzo secolo di castrismo ha da mostrare. È che le timide riforme di mercato introdotte dal Castro minore per ridare fiato all’asfittica economia cubana si stanno finora rivelando deboli placebo per un sistema dove tutto, dall’amministrazione alle infrastrutture, è stato creato per fustigare l’iniziativa individuale; e l’amico venezuelano, che per un decennio ha colmato il ruolo di benefattore un tempo svolto dai sovietici, naviga oggi in acque così torbide da non garantire alcun soccorso. Il risultato è che Castro ha bisogno dei dollari americani: dei turisti, degli investitori, dei commercianti. Una bella pena del contrappasso, per chi s’era un dì vantato d’averli cacciati.



Regole nuove ma partita aperta, dunque. Già: perché nessuno ha rinunciato ai suoi obiettivi. Chissà, penserà Obama, che una Cuba aperta non cammini da sé verso democrazia e mercato, man mano che merci e idee, mode e persone, scardineranno il guscio totalitario del regime. Chissà, penseranno i Castro, ormai chiedendosi cosa rimarrà di loro nella storia, che i dollari americani non diventino la linfa vitale per tenere in vita il loro malandato sistema. Già così, a ben vedere, la transizione cubana è cominciata. Era ora.