Il commento/ Il caso Opera e l’orchestra del Paese che non suona

di Oscar Giannino
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Mercoledì 1 Ottobre 2014, 00:21 - Ultimo aggiornamento: 00:31
una rivoluzione. Non stiamo esagerando, lo davvero. Se domani il cda della Fondazione lirica Opera di Roma varerà davvero l’azzeramento del contratto attuale agli oltre 500 dipendenti, per ripartire da zero con un contratto a tempo determinato vincolato a produttività e prestazioni, sarà una rivoluzione vera e propria. Per tre ragioni. È una rivoluzione per il grande teatro di Roma, ovviamente. Lo è per tutti i teatri di Stato italiani. Ma lo è anche per l’Italia intera.



Premessa. Se c’è un’impressione che desideriamo evitare è di apparire anche solo lontanamente privi di rispetto per chi lavora all’Opera, a cominciare dagli orchestrali. Chiunque abbia una minima idea della sacra arte musicale conosce la fatica di anni di studio e formazione, che prosegue per l’intera carriera affinandosi nell’estensione del repertorio, nell’affiatamento in un complesso esecutivo che ha timbri e caratteri diversi e peculiari quanto più l’impegno e la dedizione dei musicisti e dei direttori li affina nel tempo.



A dire la verità, inoltre, una sia pur stretta maggioranza dei dipendenti aveva votato a favore del nuovo piano industriale e del piano di risanamento finanziario dell’Opera, presentato a suo tempo dal sovrintendente Carlo Fuortes. Ma le amare cronache successive, le recite saltate a raffica nella stagione estiva, la guerriglia strisciante in vista dell’apertura della stagione invernale e le giuste dimissioni del maestro Muti, hanno segnato le tappe di una degenerazione insostenibile.



Una minoranza di sigle sindacali e di immarcescibili difensori delle indennità stratificate si è assunta la responsabilità di un fallimento conclamato agli occhi del mondo. E tutto questo per difendere privilegi che non hanno eguali all’estero, come la trasferta riconosciuta per spettacoli alle Terme di Caracalla, o la facoltà di non dover suonare in due repliche successive, anche se a diversi giorni di distanza.



I numeri dell’Opera di Roma parlano chiaro. Quasi la metà degli spettatori perduti rispetto al 2008, 12 recite in meno l’anno scorso rispetto ad allora, 10 milioni di euro di passivo nel 2013, rispetto a 21 milioni di contributo statale ricevuti. Ed è un problema diffusissimo nei teatri di Stato italiani, finanziati in perdita con i soldi di tutti. Nel 2013 solo la Scala e l’Arena di Verona hanno incassato dal botteghino più di quanto hanno ricevuto dallo Stato, mentre in tutti gli altri casi è il contribuente il finanziatore di maggioranza.



I 183 milioni annui del “Fondo unico per lo spettacolo”, ai quali si aggiungono fondi quasi altrettanto cospicui delle Autonomie Locali, non possono sorreggere una situazione che resta drammaticamente squilibrata. Come dimostrato dalle recenti vicende del “Carlo Felice” a Genova, del “Regio” a Torino, della Scala con le polemiche sul sovrintende artistico Pereira, e ancora del “Regio” a Parma.



Per questo ripartire da zero è un banco di prova nazionale. Troppe volte, la politica locale e nazionale ha chiuso gli occhi, e trattato con gli oltranzisti che chiedevano più soldi pubblici in nome della cultura – giusto, ma se ci fossero – ma tradotti in prebende e privilegi, il che è sbagliato. Si dirà però: ma che razza di idea può essere mai questa, chiedere più qualità a un teatro di grande tradizione e alla sua orchestra, assumendo i suoi dipendenti a tempo determinato? Pensate di ottenere di meglio dai precari?



Sembrano domande affilate. Ma non lo sono. Il teatro romano che – come giustamente ha scritto il professor Giuseppe Pennisi - fruisce della sovvenzione pubblica per spettatore pagante più alta al mondo, circa mille euro, ha oggi un complesso orchestrale (oltre 90 elementi che si vorrebbero portare a 110) doppio rispetto a teatri come la Deustche Oper di Berlino, che però ogni anno fa oltre 220 recite di opere e balletto (rispetto alle 70 del Teatro dell’Opera).



Ripartire con contratti a tempo per i professionisti legati al numero di spettacoli da alzare considerevolmente, facendo piazza pulita delle indennità, lasciandoli liberi sia di esercitare la professione altrove o in gruppi da camera, è il modo per ottenere tre obiettivi.



Primo: trattarli da grandi professionisti, quali sono, non da dipendenti per tutta la vita legati a una poltrona. Secondo: scegliere chi davvero si impegna in maniera esplicita a garantire standard elevati di qualità e di risultato. Terzo: consentire la rotazione e il rinnovamento senza dei quali non c’è affinamento del complesso orchestrale, né immissione di giovani. Come mille volte ricordava Abbado, e come altrettante lamenta Muti, nelle orchestre giovanili italiani maturano talenti che poi sono costretti o all’espatrio o a smettere con la musica, grazie ai “contratti a vita” delle fondazioni liriche italiane.



Un sovrintendente commissario e un direttore artistico dovrebbero esser liberi di ingaggiare artisti e compagnie secondo livelli diversi di costo, per differenziare i prezzi e accrescere il pubblico pagante, stabilire rapporti fissi pluriennali con grandi teatri europei, abbassare i costi delle mese in scena con coproduzioni, oltre a puntare ogni anno e pluriennalmente ad alcune grandi produzioni proprie.



È così, come mostrano l’esperienza tedesca, austriaca e americana, che non solo si riequilibrano i bilanci, ma si attirano capitali privati. E’ il circolo virtuoso di un teatro impresario e di professionisti, al posto di quello finanziato a più di lista per dipendenti di Stato. Se Roma non vuole deludere migliaia di melomani italiani e stranieri, il tempo della svolta è adesso.



Il ministro Franceschini, il sindaco Marino, il presidente della Regione Zingaretti dovranno tenere duro, per resistere a tutti coloro che invocheranno nelle prossime ore la marcia indietro e la difesa dell’esistente. Ma, se tengono duro, possono scrivere una bella pagina di nuovo spirito pubblico.