Il vuoto da colmare/ L’avanzata del premier e l’opposizione senza progetto

di Alessandro Campi
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Martedì 10 Marzo 2015, 22:51 - Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 00:19
L’intreccio tra politica e giustizia è da vent’anni il tratto caratterizzante della nostra vita pubblica, al punto da averne scandito i passaggi storici e istituzionali più delicati, ivi compresi appuntamenti elettorali e crisi di governo.

Si tratta di una anomalia o maledizione alla quale gli italiani si sono persino rassegnati, sino a mostrarsi in maggioranza indifferenti alle molte circostanze in cui esso si è riproposto con un tempismo che i garantisti hanno sempre definito sospetto o strumentale e i giustizialisti frutto solo della casualità e di coincidenze tanto maligne quanto fortuite.



Quell’intreccio si è riproposto ieri ancora una volta ed è parso quasi ovvio o scontato, se esso non fosse invece il segnale di un Paese lacerato e che non trova pace. Mentre alla Camera dei deputati si votava la riforma costituzionale voluta da Renzi, e sino all’altro ieri appoggiata anche da Silvio Berlusconi, poco più in là, nella sede della Cassazione (VI sezione penale), si decideva sulla sorte giudiziaria di quest’ultimo, con riferimento ad uno dei tanti procedimenti che in questi anni lo hanno avuto per imputato, quello relativo al “caso Ruby”.



La giornata si è svolta nel clima contraddittorio e drammatico che più volte in Italia abbiamo vissuto, proprio per via di questo mescolarsi simbolico tra i palazzi del potere e quelli dove si esercita la giustizia. Al mattino il centrosinistra ha incassato una importante vittoria nelle aule parlamentari, politica prima che parlamentare, che ha messo in luce la sua forza.



Ma ha messo in luce anche la drammatica asimmetria sulla quale oggi si regge la democrazia italiana. Si è infatti certificato – al di là dei numeri, comunque eloquenti – che Renzi procede senza avere avversari o oppositori che possano frenarne i piani di riforma e le ambizioni.



Quelli interni al suo partito, la cosiddetta sinistra del Pd, sono una pattuglia sempre più residuale, che sembrano battersi soprattutto per non vedere cancellata la propria identità e il proprio residuo prestigio: minacciano una resa dei conti che non arriva mai e si affidano a gesti eclatanti (l’uscita dall’aula, l’astensione, il voto contrario annunciato con grande clamore alle agenzia di stampa) che sanno più di ripicca che di scelta meditata.



Quelli esterni – dal M5S a Forza Italia, dai leghisti a quel che resta della destra post-missina – sono invece divisi tra loro e nei rispettivi ranghi, privi di una strategia comune e senza chiari obiettivi, quindi innocui o facile da manovrare, tenuto anche conto della massa crescente di irregolari e di senza partito che vagano in Parlamento, disposti a tutto, alla ricerca di un approdo ministeriale minore o della promessa di una futura ricandidatura.



La serata è invece trascorsa nell’attesa nervosa del pronunciamento, dal valore a sua volta più politico che giudiziario o personale, su Berlusconi.



La conferma definitiva della sentenza d’appello di assoluzione in che misura inciderà sul suo futuro e su quello della politica italiana? In realtà la decisione della Cassazione, per quanto si voglia malignare sui tempi che l’hanno dettata e sulla strana coincidenza col voto in aula per le riforme, stavolta sembra aver poco a che vedere con lo stato di debolezza e confusione nel quale si trovano da tempo Berlusconi e il mondo sul quale per anni egli ha esercitato il suo incontrastato dominio.



Il caos nel centrodestra, con Forza Italia ai minimi storici nei consensi e ormai in pezzi come partito, per divisioni politiche cui si sono sommati antichi rancori personali, con gli storici alleati o sodali del Cavaliere che non gli riconoscono più alcun ruolo di guida e che si sono malamente divisi tra collaborazione al governo e opposizione senza sconti al medesimo, nasce infatti – al netto delle disavventure giudiziarie di Berlusconi, che sono reali ma che per troppo tempo sono state utilizzate come alibi e giustificazione al proprio immobilismo – dal non aver risposto tempestivamente alla sfida rappresentata dalla comparsa di Renzi sulla scena politica nazionale.

Mentre il centrosinistra rigenerava se stesso intorno ad un nuovo leader e a un nuovo gruppo dirigente, dopo essere passato per un aspro conflitto interno, il centrodestra si è illuso di poter riproporre agli elettori il suo antico organigramma, a partire da un Berlusconi padre nobile, novello federatore o pur sempre soggetto trainante di quell’area.



Mentre il Pd renziano apriva al centro moderato e faceva propri i cavalli battaglia di quest’ultimo, accettando di pagare un prezzo alla sua sinistra, il centrodestra si è ritrovato improvvisamente afasico e privo di progetti o slogan, che non fossero quelli mutuati dalla sua ala più radicale in materia di sicurezza, immigrazione e antieuropeismo, col risultato di vedere crescere la Lega nei sondaggi e di doverne subire la crescente egemonia sul piano dell’immagine.



La stessa idea di una collaborazione con Renzi nel segno della responsabilità istituzionale, oltre a produrre un accordo svantaggioso per l’intero centrodestra come quello sulla legge elettorale e un crescente disorientamento nell’opinione pubblica moderata, ha a sua volta dato spesso l’impressione di essere stata dettata più dal bisogno di salvaguardare interessi personali propri di Berlusconi che da una ragione politica generale.



E come se non bastasse dall’accordo con Renzi a tutto campo, comunque motivato, si è repentinamente passati allo scontro frontale col centrosinistra senza troppe spiegazioni pubbliche che non fosse l’accusa al Presidente del consiglio di essere stato scorretto al momento di scegliere il nuovo Capo dello Stato: un atto di resipiscenza, il passaggio di Forza Italia all’opposizione, che comunque è parso denotare, agli occhi degli elettori, una grande incertezza tattica e un atteggiamento pericolosamente ondivago. E che in ogni caso non sembra sufficiente per ricompattare l’area moderata e per renderla nuovamente competitiva.



La verità è che Renzi nell’arco di due soli anni ha scombussolato l’agenda politica, le alleanze parlamentari e sociali, le modalità della comunicazione politica, le dinamiche istituzionali. Ma al centrodestra, e in particolare a colui che è stato il più grade innovatore, nel bene e nel male, della politica italiana dell’ultimo ventennio, tutto ciò è semplicemente sfuggito o è parso irrilevante. Non ha stimolato alcun cambiamento, nelle idee e negli uomini, e l’irrilevanza odierna di quel mondo ne è la logica conseguenza.