La politica non insegua certi vizi delle toghe

di Stefano Cappellini
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Mercoledì 27 Maggio 2015, 23:13 - Ultimo aggiornamento: 28 Maggio, 00:11
Strano Paese il nostro. Passeremo le ultime ore di campagna elettorale prima delle regionali di domenica a discutere sulla “presentabilità” di oscuri candidati consiglieri ai quali nessuna norma impedisce di essere in lista ed esercitare la funzione. Nel frattempo l’aspirante governatore di una delle principali regioni italiane, Vincenzo De Luca in Campania, è un candidato che - per legge dello Stato - dovrà essere sospeso un minuto dopo l’eventuale proclamazione e confida in un azzeccagarbuglio per restare in carica. Cioè siamo al paradosso che un’ala del Palazzo - in questo caso la commissione parlamentare Antimafia - lavora per sanzionare di fatto chi non ha violato alcuna legge, mentre un’altra ala del Palazzo potrebbe presto mettersi al lavoro per evitare la sanzione a chi la legge, giusta o sbagliata che sia, ha voluto ignorarla.

Non è l’unica stranezza di questo tormentone sui cosiddetti impresentabili.

Non c’è infatti una sola ragione per considerare giusta e provvida la mossa dell’Antimafia di stilare una lista di candidati “cattivi”. Esiste una legge che disciplina la candidabilità dei cittadini, appunto quella che in teoria avrebbe dovuto sbarrare il passo a De Luca, e che allo stato attuale delle cose rappresenta l’unica possibile bussola di legalità. Il resto appartiene all’autonomia del politico, il cui unico giudice naturale dovrebbe essere la sovranità popolare.





Tutti i casi di candidature discutibili che non rientrano nei divieti fissati per legge possono ovviamente essere oggetto di dibattito politico o giornalistico - anzi è doveroso che lo siano: l’opinione pubblica ha diritto di sapere il più possibile su chi si propone di amministrare la cosa pubblica - ma non possono finire per atto istituzionale in quella che, su simili basi, si configura come una lista di proscrizione. L’essere indagati o l’aver subito uno o più gradi di giudizio rappresentano senza dubbio una zavorra per chi vuole farsi eleggere, ma per la legge italiana non sono ragioni sufficienti a bollare queste candidature con un timbro parlamentare di impresentabilità, categoria che peraltro richiama un giudizio di tipo morale, una patente etica di cui nessun organo istituzionale può arrogarsi il rilascio. Se qualcuno invece pensa che l’iscrizione tra gli indagati debba essere incompatibile con l’ingresso in lista (ipotesi che forse casserebbe dalle liste qualche traffichino, certo eliminerebbe ogni traccia di garantismo dal nostro sistema), allora si regoli di conseguenza: si batta per cambiare la legge anziché cercare di introdurne una versione complementare per mezzo di una commissione parlamentare.



Quello che in uno Stato di diritto non può accadere è che, tra un tentativo di modifica in senso restrittivo e un altro in senso lassista, ci si dimentichi di applicare la legge in vigore così com’è.

L’Antimafia non sta portando all’attenzione degli elettori i risultati di una inchiesta condotta con i poteri speciali di cui pure dispone, ma si sta limitando a raccogliere dati e veline provenienti dal territorio. Il risultato è una sorta di “avviso di garanzia” della commissione antimafia, un assurdo giuridico, figlio di una politica che insegue la magistratura, come già non bastasse la tendenza contraria, in un circolo vizioso in cui nessuno dei poteri dello Stato fa il suo mestiere correttamente, rispettando le prerogative dell’altro. Al contrario, ciascuno invoca per il campo altrui una severità che diventa subito autoindulgenza quando si tratta di disciplinare il proprio.

A rendere grottesca la vicenda concorre infine la questione dei tempi, dato che il responso dell’Antimafia sarà disponibile a poche ore dal silenzio elettorale. Seppure, in fin dei conti, il silenzio sulla lista potrebbe essere il minore dei mali.