Riforme, Renzi “avvisa”. Grasso E nel Pd riparte la trattativa

Riforme, Renzi “avvisa”. Grasso E nel Pd riparte la trattativa
di Nino Bertoloni Meli
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Martedì 22 Settembre 2015, 06:10 - Ultimo aggiornamento: 21:05

Sarà pure vero che alla direzione del Pd sarebbero stati compiuti «passi avanti significativi» (Bersani, da quel di Modena e assente al Nazareno), sta di fatto che l'accordo ancora non c'è, che la minoranza alle parole aperturiste ha fatto seguire la scelta di non partecipare al voto finale, e insomma tutto è rinviato alle scelte dei senatori ribelli a palazzo Madama («sulle riforme cosituzionali non c'è vincolo di partito»). Una trattativa sulla quale incombono le scelte del presidente Piero Grasso, da giorni in tensione con Matteo Renzi e la maggioranza del Pd per le decisioni che deve prendere (o non prendere) sull'ammissibilità degli emendamenti, e quindi sulla riapertura o meno dell'articolo 2.

Il premier-segretario non ha mandato segnali di pace. «La svolta su questa legislatura è stata quando abbiamo scelto di fare le riforme con una mossa che sembrava ardita», esordisce, paragonando in direzione, il Pd alla squadra giapponese di rugby che si è scontrata contro il Sudafrica.

A un certo punto della relazione, prende di petto la questione e fa: «Se il presidente del Senato dovesse riaprire l'articolo 2 sarebbe un fatto inedito e a noi non resterebbe che convocare Camera e Senato». Apriti cielo. Fuori dal Nazareno ci sono i vigilantes della democrazia cui non pare vero inchiodare Renzi: «Inaudito sarebbe che il premier convochi lui le Camere». Sta per andare in scena un altro capitolo di ”torsioni antidemocratiche”, ma il premier-segretario stoppa sul nascere, legge le agenzie e precisa e smussa e svuota.

L'ALTOLÀ

«Alt. Tra i tanti poteri che il premier non ha, non c'è quello di convocare le Camere. Intendevo ovviamente che, di fronte a un fatto inedito di tale portata, il Pd convocherebbe i gruppi parlamentari di Camera e Senato». Chiuso sul nascere l'incidente istituzionale, rimane l'avvertimento a Grasso a non compiere scelte «inedite», anche perché i gruppi del Pd non verrebbero convocati per applaudire l'operato del presidente del Senato.

Su che cosa si tratta, adesso? Spunta il nome dello scomparso Pinuccio Tatarella, esponente di primo piano di An della Puglia, nome al quale è legata la legge elettorale regionale che porta appunto il suo nome. Lo cita Renzi nella relazione, la cosa non passa inosservata nella minoranza, «bene, questa può essere la strada», ma il tutto si fonda su un equivoco: per il premier-segretario il ricorso al Tatarellum è una procedura precisa di designazione dei futuri senatori e non di elezione diretta, per la minoranza è esattamente il contrario. «Se vuol dire che i cittadini eleggono i senatori e poi le Regioni ratificano, va bene, è proprio quello che noi chiediamo», chiosa Bersani, ripreso con le stesse parole dai vari Gotor e D'Attorre, i pasdaran del no. Ma non stanno così le cose. Renzi ha voluto essere preciso e ha fatto pure degli esempi, riguardanti guarda caso proprio Bersani e Chiti, tra i due maggiori dissidenti, che furono designati dagli elettori.

Se l'accordo ancora non c'è, non vuol dire che sia tutto in alto mare. Spiega Giorgio Tonini, che attendeva i segnali della direzione per poi tornare a trattare e a mediare: «Beh, intanto va segnalato che incidenti non ce ne sono stati, il che non è da poco. E poi sono emersi accenti diversi nella minoranza». In effetti, Cuperlo e Zoggia più aperturisti, altri molto meno. Sicché la scelta di non partecipare al voto finale va letta come il tentativo di coprire differenze e divisioni nella minoranza. Renzi ha tenuto il punto: si può trattare e ancora trattare, «ma per favore, non si faccia di questo passaggio il discrimine della democrazia. A che gioco giochiamo, nel Pd?».