Silvio Berlusconi è stato il Cavaliere con la maiuscola. Era talmente Cavaliere che fino a ieri pomeriggio bastava l'abbreviazione per identificarlo: Cav. E forse, nonostante si sia dimesso da cavaliere prima che gli altri cavalieri dell'associazione dei cavalieri lo dimettessero a causa della condanna ricevuta, resterà per sempre il Cavaliere - anche se gli avversari lo chiameranno, come da titolo del libro di Italo Calvino, Il cavaliere inesistente - nell'immaginario collettivo. Ma il colpo ricevuto da Berlusconi, anzi auto-inferto ma per evitare che venisse dichiarato decaduto come gli è capitato per la carica di senatore, è di quelli a loro modo storici. C'è un magnifico film, Totò e Carolina, soggetto di Ennio Flaiano e regia di Mario Monicelli, in cui il De Curtis - che dei cavalieri come figure dell'Italia grandiosa e insieme minuta si è sempre fatto beffa - costruisce con il pane una statua. Che poi però si sgretola. Ecco, ieri si è sgretolata la statua equestre del Cav, mentre la corte del Cavaliere - il gruppo dei suoi dignitari di sempre - si è già da tempo sgretolata e l'ultimo abbandono, quello della storica segretaria Marinella, è il simbolo di questo passaggio d'epoca.
IL SEGNO DEL MARTIRIO
La privazione del titolo di cavaliere ha per Berlusconi il significato, dolorosissimo, della spada tolta e spezzata sotto il suo naso, e davanti al suo reggimento, al capitano Dreyfus, protagonista dell'omonimo e celeberrimo caso nella Francia di fine '800. È una ferita nell'orgoglio, ma può essere mediaticamente sfruttabile così l'ultima vicenda di Silvio: non fanno che accanirsi contro di me, sono il martire per eccellenza, mi hanno tolto tutto quello che ho conquistato prima di fare politica. È come se a Giuseppe Garibaldi avessero tolto la barba. Ma lui, il Cavaliere, non poteva correre il rischio di subire una decadenza bis, dopo quella dal Senato, e a differenza di allora ha giocato di anticipo con l'auto-rinuncia. Ha evitato di finire come Callisto Tanzi, a cui la condanna per Parmalat costò l'espulsione dall'associazione dei cavalieri. Tra i quali, in questo caso, il più deciso nel chiedere il depennamento del Cavaliere pare che sia l'industriale Pietro Marzotto. Di fatto, su Wikipedia, la voce che lo riguarda comincia così: «Silvio Berlusconi, politico e imprenditore italiano, detto il Cavaliere». Ma adesso bisognerà correggere l'incipit. E bisognerà vedere l'effetto che fa, nel Paese abituato a chiamare Berlusconi il Cavaliere, pensare a lui chiamandolo ex Cav.
A meno che questa rinuncia all'onorificenza, come spera Berlusconi, non si riveli una privazione che rafforza il titolo. Il filosofo Mario Tronti, marxista e neo-democrat, ha detto tempo fa: «Il problema non è il Cavaliere, è il cavallo». Ora che non c'è più il cavalier Berlusconi, il cavallo Italia si sentirà più leggero?
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