La tensione in piazza non rallenti le riforme

di Oscar Giannino
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Venerdì 31 Ottobre 2014, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 00:14
Quattro giorni fa abbiamo scritto che l’autunno caldo è morto, che a seppellirlo è stato Matteo Renzi e che si tratta di una buona cosa.



Purché ci si ricordi, dicemmo alla fine, degli ultimi decenni di storia italiana, in cui finora sempre un rigurgito di violenza finiva per rialimentare gli antagonismi quando qualcuno in politica pretendeva di decidere riforme senza sottoporsi a veti preventivi da parte dei sindacati. Detto e fatto, ecco che ci risiamo. E ora però bisogna essere solo coerenti, anche nella brutta difficoltà che si è subito parata innanzi.



Molti infatti non lo ammettono, ma hanno quasi esultato di soddisfazione assistendo agli scontri tra polizia e manifestanti della Ast di Terni. Il passato non passa, e chi crede di lasciarselo alle spalle per riformare il Paese abbattendo vecchi tabù, finirà abbattuto lui: questo è il pensiero retroattivo dei figli di chi un tempo gridava esplicitamente che il governo per definizione sta con i "padroni", che la polizia è il loro comune braccio armato e che non c’è alternativa a una lotta antagonista.



Ce ne sono ancora, a pensarla così, anche se a ripeterlo in questo modo sono meno di un tempo. Bisognava saperlo che bastava un minimo incidente di piazza per ridare fiato allo scontro muro contro muro. E occorreva dunque impartire alle forze dell’ordine norme inequivocabili sulla necessità di evitare qualunque errore di valutazione e qualunque eccesso di intervento.



È esattamente quanto invece è accaduto a Roma, a piazza Indipendenza. Sia detto con il massimo rispetto di chi veste la divisa per conto dello Stato, ma chi aveva la responsabilità di fronteggiare i lavoratori che rischiano a centinaia il lavoro a Terni non doveva far caricare, né perdere il controllo nemmeno se provocati.



A questo punto viene il problema politico. La Fiom non a caso ieri ha deciso subito di dichiarare uno sciopero generale contro il Jobs Act, approfittando dell’ondata emotiva che ha spinto anche la segreteria della Cgil a non rinunciare alla polemica brutale contro il governo manganellatore. A Renzi tocca incontrare i sindacati sì, ma se cede di un millimetro su quanto ha detto finora, e cioè sul fatto che sulle riforme non si accettano veti né si tratta prima con i sindacati, allora è il premier che rischia la rottamazione, e non più l’autunno caldo.



Crediamo che non avverrà. Va semplicemente affermato una volta per tutte un principio: che ogni governo, di qualunque colore, d’ora in poi prima di definire i suoi interventi non tratta con i sindacati come finora non trattava con il lavoro autonomo, tanto per restare nel campo della giustizia e dell’equità.



Piuttosto, Renzi a questo punto batta un colpo sulla politica industriale e sull’acciaio, visto che la crisi del settore in Italia è verticale da parecchi anni. La crisi della Ast è figlia di un profondo errore dell’Antitrust europeo al quale l'Italia non ha saputo opporsi, un vero e proprio "atto di cretinismo" come giustamente ebbe a dire il presidente di Duferco e Federacciai, Antonio Gozzi. Levare l'impianto ai finlandesi di Outokumpo che lo volevano potenziare per ricederlo ai tedeschi della ThyssenKrupp, che in Italia dopo le morti di Torino e le relative sentenze non ci vogliono stare, è stata una decisione demenziale.



Che si aggiunge al fatto che per il capolavoro dell’esproprio di Stato a Taranto bisogna sperare vengano a rimediare gli indiani di ArcelorMittal, e quelli di Jindal a Piombino. Non si capisce se l’idea abbracciata ormai è che sia meglio siano poi degli stranieri piuttosto che degli italiani a chiudere gli impianti, nel quadro di un consolidamento mondiale che sposta la produzione nell’Asia ad alto assorbimento di acciaio e cemento, rispetto alla sovraccapacità europea che, nel nostro caso, è a rischio non solo perché a maggior costo, ma per la piega che ha preso la giurisprudenza italiana, sia ambientale che in materia di incidenti sul lavoro.



Ecco, a questo punto serve dare un messaggio forte contro l'abdicazione rispetto a produzioni che sono invece il fondamento del settore manifatturiero. Sarebbe un errore piegarsi al veto preventivo perché qualcuno in divisa ha sbagliato in una piazza.