Addio al grande urlo di Tardelli? L'esultanza oggi si fa sui social

Marco Tardelli
di Luca Ricci
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Lunedì 28 Luglio 2014, 16:54 - Ultimo aggiornamento: 31 Luglio, 02:12
​Pjanic fa un gran goal da centrocampo manco fosse un quarterback NFL, e poi usa i Social per condividere la sua gioia: un modo di esultare davvero al passo coi tempi. Il talento bosniaco della Roma dal suo profilo twitter ha scritto ironico: “Radja, grazie per l’assist”. E’ normale che con il cambiare dei tempi cambi anche il modo di esultare. Fatta eccezione per qualche termine generale. Empatia è una parola che deriva dal greco empatéia e significa sentire dentro. Chi crea empatia non va solo verso l’altro, ma si sforza di portare gli altri nel proprio mondo. E questo dovrebbe essere il senso di ogni esultanza calcistica degna di questo nome.



Scontato tirare fuori dal cilindro il grido di gioia calcistico par excellence (il cui rovescio nichilista, sebbene in ambito artistico, si può riconoscere nella celebre tela del pittore Edvard Munch): la corsa irrefrenabile di Marco Tardelli ai mondiali spagnoli del 1982, dopo aver segnato il raddoppio italiano alla Germania Ovest. Quella corsa- e per molti Tardelli sta ancora correndo- è stata capace davvero di far condividere a un paese intero un’unica emozione di straripante felicità, un orgasmo sportivo, un’orgia calcistica. Certo, molti altri esempi virtuosi si potrebbero citare.



I delirium tremens di Pippo Inzaghi, le corse sotto la curva sud di Roberto Pruzzo, gli abbracci sgraziati di Giorgio Chinaglia. Meno oneste, seppur ancora ammissibili, le esultanze seriali, in cui un calciatore lega la propria felicità sempre al medesimo gesto, che si ripete identico di goal in goal, quasi come un marchio di fabbrica, un brand che aumentasse la riconoscibilità dell’attaccante e ne aumentasse l’appeal: la mitraglia di Gabriel Batistuta, l’aeroplanino di Vincenzo Montella, la linguaccia di Alessandro Del Piero, il violino di Alberto Gilardino. Meno godibili invece la serie di esultanze ginniche (doppi o tripli salti mortali), coreografiche (balletti, magari concordati con altri componenti della squadra) o didascaliche (esibizione di t-shirt sotto la maglia ufficiale con scritte invariabilmente trascurabili). C’è da dire che un campione vero si vede anche dal modo in cui festeggia. Il genio di Maradona è stato pari alla sua voglia di festeggiare, nel suo caso condita con una lunga scia di sfottò all’avversario, dalla Mano de Dios inflitta agli inglesi a quel modo davvero da scugnizzo (ancora l’empatia) di rimarcare una goleada con le dita della mano (l’ha fatto anche recentemente, ormai da commentatore sportivo, per rammentare al Brasile i sette goal presi dalla Germania).



Anche per questo Lionel Messi resta distante anni luce dalla leggenda di Maradona, e non solo perché ha mancato proprio all’ultimo atto l’obiettivo mondiale. La Pulce- e anche i nomignoli hanno il loro peso e sintetizzano un destino- esulta nello stesso modo in cui gioca e segna: da manuale. Ma la sua sembra sempre la recita del primo della classe, di un fastioso nerd un po’ secchione, e mai la rappresentazione di uno spettacolo da condividere. Messi non fa nulla per colmare la distanza tra sé e il pubblico pagante (allo stadio o sul divano poco importa), e pare quasi a tratti il grigio impiegato del suo talento. Sul gradino più basso di questa particolare classifica c’è ovviamente Mario Balotelli, il quale rinuncia per partito preso all’esultanza. Il ragazzo di Brescia pensa ancora come un’adolescente: non mostrare la propria emotività rende più forti. Invece è esattamente il contrario (Tardelli docet). Per di più non esprimendo la sua gioia, lasciandola strozzata in gola, compressa nei muscoli delle gambe che non corrono verso i compagni e neppure verso gli spalti, Balottelli ruba quell’emozione a chi guarda, a tutti noi. Gli sportivi, i tifosi, usano i calciatori per emozionarsi attraverso di loro, e uno spettacolo senza empatia alla lunga può anche chiudere i battenti.
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