Se lo dice lo Zingarelli bisogna davvero crederci. Selfie è una delle parole dell’anno, ed entra di diritto tra i lemmi del dizionario della lingua italiana. Ma l’anglismo - tradotto in maniera generica con “autoscatto con il cellulare” - va ben oltre questa dimensione. Il selfie è ormai assurto a vero e proprio rituale della post-modernità, ed è divenuto simbolo di una società (attribuirlo a una sola generazione sarebbe riduttivo ed errato) che non riuscendo a trovare dentro di sé un’identità forte si affida alla superficie, all’aspetto esteriore immortalato in immagini narcisistiche al limite dell’egotismo di massa.
C’è così il selfie provocatorio, che magari esibisce qualche nudità esplicita o un atteggiamento esasperato (chiedete a Belen Rodriguez, solo per fare un nome tra tanti).
Perché, di fatto, il selfie è la frontiera estrema del narcisismo del XXI secolo, l’ego visivo che si contrappone ai contenuti, in una ripetizione ossessiva di se stessi, veicolata su social media che perdono quasi del tutto la connotazione social a favore di un ME-dia in cui il suffisso finale non sembra avere più alcun significato.
Oggi “selfano” davvero tutti, dai terroristi di ISIS, che mostrano orgogliosi le teste di coloro che non potranno mai più riprendersi in un autoscatto, alle starlette in cerca di notorietà. Dagli uomini più potenti del mondo a calciatori, attori e gente comune. E se anche Silvio Berlusconi cede alla tentazione riprendendosi con la fidanzata Francesca Pascale e Vladimir Luxuria, a distanza di oltre venti anni dalla calza di nylon sulla telecamera, beh ’è davvero ben poco da aggiungere.
In fondo però i selfie esistono da sempre. Da quando l’uomo delle caverne ritraeva se stesso nei graffiti che sarebbero diventati testimonianza della sua epoca, sino a Andy Warhol che trasformava i ritratti delle polaroid (i cellulari dell’epoca con la loro istantaneità di rappresentazione) in opere d’arte che avrebbero raccontato la società effimera dei “famosi per 15 minuti”. Con buona pace di Stendhal, che coniò il termine, la società del selfie ha trasformato l’egotismo - l’atteggiamento di chi da eccessiva importanza a se stesso - nell’apoteosi dell’autorappresentazione. Come nello specchio magico della Regina della favola di Biancaneve, rimiriamo noi stessi nei selfie che raccontano la nostra vita in cerca di risposte (o di conferme) che si brceranno in pochi istanti, tra milioni di faccioni troppo grandi e sorridenti per essere davvero espressivi e lasciare un segno.
E non è un caso dunque che in questa società liquida raccontata dagli smartphone (e non dal video registratore come il sociologo Zygmunt Baumann aveva proposto anni fa), un’altra parola – molto meno nota – sia entrata di diritto, e contemporaneamente, nello Zingarelli: Nomofobia, ovverosia il timore ossessivo di non poter disporre del telefono cellulare e – aggiungeremmo – di non poter ribadire sé stessi nell’ennesimo, irrinunciabile, selfie.