Faletti, una vita nel thriller con il lieto fine: ecco La piuma, favola postuma

Faletti, una vita nel thriller con il lieto fine: ecco La piuma, favola postuma
di Carmine Castoro
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Sabato 4 Luglio 2015, 05:11 - Ultimo aggiornamento: 16:18
Ci sono un generale e un re che organizzano un piano di attacco. Si confrontano fra simboli sontuosi e marziali in una sala delle guerre, ma quando capiscono che in nome della vittoria finale dovrebbero sacrificare centinaia di vite umane, non arretrano di un passo, il bagliore delle baionette fa tutt’uno con quello della loro cupidigia, e la decisione è bella che presa.



E c’è un curato che va da un cardinale. Blandizie e venerazione verso quest’ultimo che sfoggia anelli e drappi di seta, pizzi e grande vanità all’ombra della sua ieratica importanza. Ma quando si tratta di far di conto e di pretendere dazi e prebende dai poveri contadini rappresentati dall’umile parroco, l’Eminenza non batte ciglio, e con la scusa della contrizione della carne in nome di Dio, li condanna al pagamento e al digiuno.



Comincia con queste prime figure “La piuma”, uno degli ultimissimi lavori di Giorgio Faletti di cui proprio in questi giorni ricorre il primo anniversario della morte. Un Faletti di cui abbiamo tutti apprezzato gialli e psycho-thriller carichi di suspense, crudeltà di serial-killer imprendibili e ombre assassine. Ma qui l’atmosfera cambia totalmente. E proprio una piuma diventa la testimone leggiadra e candida, muta e svolazzante delle tante nequizie, delle tante ipocrisie nelle quali strisciano gli umani, quasi come minuscoli vermi, chiusi nei loro ruoli, adescati dal profitto, traditori di se stessi, cinghie di un sistema che sembra sbarrare la strada a tutto quanto è benevolenza e collegialità. E anche la ballerina disperata per amore, e la prostituta che vende le sue morbide fattezze al cavaliere ricco di monete e avido di emozioni, non fanno che avvalorare il triste viaggio di questa eterea piccola penna che si solleva e rifugge, si presta al vento ma anche alle onde aeree che la mettono in salvo da ciò che metaforicamente potrebbe macchiarla.



Favola filosofica potremmo definirla, perché non polarizza il Male rispetto a un presunto Bene, anzi allarga a dismisura quest’ultimo, riconsegnandolo all’ossigeno di un volo finale, e a una sorta di mito della caverna riadattato, poiché dagli inganni e dalle inutili peregrinazioni sulla terra non ci si salva con una Luce radiosa, ma con l’abbraccio del cosmo, con la bellezza selvaggia della natura, con un grande rito di apertura al senso della vita che, guarda caso, solo l’uomo di conoscenza, circondato di macchine e bozzetti, tele e mappe, sempre pronto a vivere dei tormenti e delle inquietudini di un sapere sincero, sa di nuovo officiare.



C’è in questo esemplare breve apologo di Faletti la densità concettuale ed eticamente improntata di un grande filosofo, Edgar Morin, padre del “pensiero complesso”, soprattutto quando dice nel suo ultimo “Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione” (Raffaello Cortina Editore): “Un’educazione rigenerata non saprebbe da sola cambiare la società. Ma potrebbe formare adulti più capaci di affrontare il loro destino, più capaci di far fiorire il loro vivere, più capaci di conoscenza pertinente, più capaci di comprendere le complessità umane, storiche, sociali e planetarie, più capaci di riconoscere gli errori e le illusioni della conoscenza, nella decisione e nell’azione, più capaci di comprendersi gli uni con gli altri, più capaci di affrontare le incertezze, più capaci di affrontare l’avventura della vita”.



Contro la crisi della civiltà in cui viviamo Morin propone un’”ecologia dell’azione”, un pensiero “reliante” che leghi e allei le persone, in una considerazione profonda della propria identità, personale e di gruppo, che riporti a quelle radici biologiche e culturali che sembrano spezzate da una dimensione meramente quantitativa, tecnocratica, economicista su cui abbiamo schiacciato il nostro essere. Siamo, insomma, sostiene Morin, separati, ridotti, preclusi l’un l’altro, otturati nella coscienza, educati al peggio, blindati e fintamente securizzati dal privilegio e dal cinismo antisolidaristico. Chiarissimo quando punta il dito nel ventre molle della nostra infezione individualistica: “Gli ostacoli alla comprensione umana sono enormi; sono non soltanto l’indifferenza, ma soprattutto l’egocentrismo, l’autogiustificazione, la self-deception o menzogna a se stessi che riporta il torto sugli altri, vede solo i difetti altrui e alla fine disconosce la loro umanità”.



E non è così anche nella simpatica e dolente vetrina antropologica di Faletti? Il generale succube e ossequioso, il re dominatore, il curato genuflesso, il portavoce di Dio che pensa alla borsa, l’artista infelice perché non ricambiata, la donna di tutti che sorride sghemba di una felicità a buon mercato: tutte figure sigillate nelle loro eco-sfere ridicole e violente, troppo ingigantite e prive di autoanalisi. Ecco allora lo spettro dell’atomizzazione, finta totalizzazione operata sul particolare, magnificandolo e facendolo dardeggiare del suo nulla; vero ghost dell’economia liberale di oggi – ma aspra roccia dell’egoismo di sempre - che spinge verso l’universo delle chance e dell’uguaglianza di fatto, ma manda in malora quest’ultima nel delirio dell’isolamento e della slealtà applicati alla supremazia ad ogni costo. Tutti uguali, ma tutti separati, in una lotta senza coscienza e senza patto.



E allora, la “devianza fruttuosa”, per dirla alla Morin, la rigenerazione, il richiamo dell’alterità, la congiunzione nuova degli elementi, non può che passare per quel perfetto incastro di una piuma con un’ala, di un uomo con un angelo, di un pensiero con la vastità, di un pezzo di cuore con i sentieri luminosi di un cielo che non ha più cassetti e scettri, troni e editti, ma solo lo sguardo altissimo di un nuovo inizio.



Giorgio Faletti “La piuma” (Baldini&Castoldi, pagg. 79, euro 13)