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di Luca Cifoni

Perché un altro caso "spesometro" è sempre in agguato

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Martedì 26 Settembre 2017, 20:18 - Ultimo aggiornamento: 21:21
Ha quasi dell'incredibile la vicenda del servizio web “Fatture e corrispettivi” (uno dei canali per il cosiddetto “Spesometro”) bloccato perché rendeva praticamente pubblici i dati immessi da intermediari e contribuenti e poi parzialmente ripristinato. Probabilmente ci vorrà ancora un po' di tempo per capire che cosa è successo davvero. Non è la prima volta che si verificano anomalie con le procedure telematiche fiscali: una meno grave relativa alla dichiarazione precompilata era stata resa nota dal Messaggero lo scorso anno.

Ma il grave problema tecnico-informatico è solo l'epilogo di una vicenda comunque non esaltante per il fisco italiano. Vicenda che nasce con la legge di Bilancio 2017 e più precisamente con il decreto fiscale ad essa collegato: il governo aveva bisogno (come sempre) di maggiori entrate per conseguire gli obiettivi di finanza pubblica, ma era comprensibilmente riluttante ad ottenerle nel modo più diretto, ovvero con un aumento delle aliquote di imposte esistenti. Anzi, era necessario scongiurare (ed è necessario ancora farlo per il 2018) lo scatto degli aumenti Iva già previsti come “clausole di salvaguardia”.

Di qui la scelta di attingere alla “lotta all'evasione fiscale”. Nel mirino tra le altre voci c'era proprio l'Iva, imposta che - come dimostrano vari studi internazionali - nel nostro Paese ha un gettito relativamente più basso per le varie esenzioni esistenti ma anche per i comportamenti non corretti dei contribuenti. E siccome si ritiene che l'evasione Iva passi in buona parte oltre che dalle frodi vere e proprie dall'omessa dichiarazione di ricavi e compensi (non intercettabili con il controllo delle dichiarazioni) è stato richiesto ai contribuenti di inviare ogni tre mesi i dati delle fatture emesse e ricevute. Tutto giusto? Sì e no. Perché se in astratto questa strategia può essere condivisibile, il governo per le ragioni di cui sopra ha dovuto attuarla in tutta fretta, per garantirsi subito robusti introiti aggiuntivi, quantificati in 1,32 miliardi nel 2017 e 2,64 nel 2018. Fin dall'inizio i commercialisti si sono allarmati per la mole di lavoro aggiuntivo; ma bisognava andare avanti e così l'unica concessione è stata rendere le comunicazioni semestrali invece che trimestrali, per il primo anno. Non è servito a molto e la scoperta dell'errore informatico è avvenuta quando la situazione era già piuttosto confusa, nonostante la scadenza fosse stata prorogata più volte.

È quasi un'ovvietà dire che da tutto ciò il governo dovrebbe ricavare una lezione semplice: anche senza aspettare gli incidenti tecnici, sovrapporre esigenze immediate di gettito e revisioni non banali delle procedure non è una buona idea, soprattutto quando la volontà dichiarata è quella di semplificare la vita al contribuente. Ma è una lezione che difficilmente il governo potrà accettare, perché anche con la prossima legge di Bilancio vanno trovate rilevantissime entrate aggiuntive (circa 7 miliardi) e di nuovo nel mirino c'è l'evasione. Il rischio che la storia si ripeta è tutt'altro che teorico.

 
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