“American Psycho” è anche il titolo a effetto usato da un giornale schierato come Libération, nel dare conto della vittoria di Trump. Il libro di Bret Easton Ellis, che racconta con freddezza le malefatte di uno yuppie in stile “silenzio degli innocenti”, è un surreale ritratto dei difetti di un’epoca, portato alle sue estreme conseguenze. Senza alcun commento di natura morale. Un’era in cui tutto era permesso. E che ora torna prepotentemente di moda.
Lo stesso autore di “Meno di zero” aveva detto profeticamente, lo scorso febbraio, che Hollywood “vota Trump e non lo dice”. Come hanno fatto anche molti altri americani, lontano dai circoli radical chic e dai red carpet. Che hanno scelto l’uomo delle “proposte indecenti”. Senza mai confessarlo ad alcun istituto d’opinione.
Così, gli americani sono tornati, come d’incanto, all’epoca dei party al Club 54, dove la giovane Madonna cominciava a farsi notare, delle mostre di foto scandalose di Robert Mapplethorpe, della deregulation dettata da un presidente che al cinema non aveva sfondato, ma che aveva convinto tutti promettendo guerra alle tasse. In Italia Vattimo coniava il termine “edonismo reaganiano”; il libro da leggere era “L’insostenibile leggerezza dell’essere”; la Transavanguardia imperava; il pensiero era “debole”.
Il passaggio da un’epoca all’altra era ben visibile: dal “noi” all’”io”, dagli hippy agli yuppie, dall’utopia al narcisismo.
Oggi, cosa è cambiato? Si estremizza il messaggio. Per dirla con Marilyn Manson, il più maledetto dei rocker made in Usa, gli americani “credono in tutto ciò che dicono e lo dicono perché ci credono”. In fondo non importa cosa si dice, ma come. Non importa che la notizia sia vera, ma che diventi virale. Prima si alza molta polvere e, soltanto in seguito, si fa il conto dei danni. O si corre ai ripari.
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