I segreti di Osage Country: gli scheletri nell'armadio dei parenti troppo serpenti

I segreti di Osage Country
di Fabio Ferzetti
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Giovedì 30 Gennaio 2014, 13:51 - Ultimo aggiornamento: 2 Febbraio, 10:41
Dodici protagonisti, fra cui vari premi Oscar. Una grande famiglia del Sud, dunque matriarcale, riunita intorno a una morte che sa di suicidio.



Un’aggrovigliata matassa di ricordi, miserie, piccoli e enormi segreti, destinati a deflagrare uno dopo l’altro con perfetto tempismo, anche grazie alla calura di agosto in Oklahoma (la commedia di Tracy Letts, premio Pulitzer e sceneggiatore del film, si intitola August: Osage County, ma Rizzoli la pubblica come Agosto, foto di famiglia).



Sam Shepard, celebre poeta, muore quasi subito in circostanze oscure. La neovedova Meryl Streep, malata di cancro, impasticcata cronica e con una dannata tendenza a parlare troppo (ma non a caso: le serve a mantenere il potere), chiama a raccolta la famiglia. Arrivano sua sorella, la corpulenta Margo Martindale, con Chris Cooper, marito succube ma non del tutto. Arrivano le figlie Meryl Streep, Juliette Lewis e Julianne Nicholson (l’unica rimasta a vivere in zona, le altre hanno preferito tagliare la corda, e si capisce perché), con relativi mariti e amanti, più o meno precari se non segreti.



Poi ci sono due membri esterni, per così dire, gli unici per cui c’è ancora speranza (forse). Abigail Breslin, figlia 14enne della Roberts, che sperimenta sulla propria pelle la tendenza delle mamme a riprodurre il peggio delle proprie madri. E la nurse-cuoca-badante, Misty Upham, pellerossa, che vigila su quella gabbia di matti. E sarà l’unica a impedire, una tantum, il peggio.



Tutto questo basta a fare un film solido, a tratti perfino avvincente, malgrado l’impianto iperteatrale, perché i personaggi sono ben disegnati e ricchi di chiaroscuri. Non basta a fare un gran film. Perché il testo di Letts diventasse cinema ci voleva un Altman, un regista capace di lavorare sul tempo e di estrarre mistero da ogni figura, ogni scorcio, ogni parola.



John Wells e i suoi (ottimi) attori fanno il contrario, cadendo in flagrante overacting. Qui ogni emozione, ogni ricordo, ogni dettaglio della vita dei protagonisti, compresi quelli taciuti o rimossi, e a maggior ragione ogni colpo di scena, viene sviscerato, espresso, articolato, rappresentato in tutta la sua drammaticità dagli attori. Così però il pathos resta esteriore, un puro prodotto di bravura. E l’ammirazione, fatalmente, vince sull’emozione.
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