Gwenda Blair: «Ha l’aria da cattivo ragazzo, ma è un talento che stupisce»

Gwenda Blair: «Ha l’aria da cattivo ragazzo, ma è un talento che stupisce»
di Maria Latella
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Lunedì 14 Novembre 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 14:24
Ora che Donald Trump è diventato il 45mo presidente degli Stati Uniti, in molti scoprono di aver sempre saputo che, prima o poi, sarebbe arrivato alla Casa Bianca. Gwenda Blair, giornalista e docente alla Columbia University di New York avrebbe buone ragioni per poterlo affermare, sui Trump ha scritto una biografia di cinquecentonovanta pagine, ma appartiene alla vecchia scuola del giornalismo: poca autopromozione e molto lavoro sul campo. Perciò non lo dice. Eppure proprio lei, già nota autrice per un bestseller giornalismo televisivo, sedici anni fa decise di dedicarsi ai Trump. Non al solo Donald, ma all’intera saga familiare, dal nonno Friedrich, emigrato dalla Germania a 16 anni, al padre Fred, il solido costruttore che non amava le luci della ribalta, fino a lui, Donald, la star.

Aveva previsto la sua ascesa alla Casa Bianca?
«Non ho la sfera di cristallo, ma conoscendo la sua personalità e anche l’audience alla quale era abituato a rivolgersi, dai giocatori di casinò agli spettatori di reality, la sua vittoria era tutt’altro che imprevedibile. Non mi sorprende che, ancora una volta, il suo talento di venditore abbia incontrato il successo. In America c’era una evidente e vasta insoddisfazione e Trump è stato abile nel proporsi come agente del cambiamento. Certo, bisogna vedere se lo sarà davvero».

Quando ha intuito che poteva davvero diventare il 45mo presidente degli Stati Uniti?
«Non so se è stata un’intuizione o piuttosto, non sorrida, una visione. Il giorno in cui ha comunicato la sua candidatura, tra i marmi rosa della Trump tower, ho seguito l’annuncio. C’erano lui e Melania che scendevano dall’alto di una scala mobile, la versione Disney del re e della regina al balcone, lei dietro lui naturalmente. Ecco, attorno a Donald c’era come una luce... un’aura. Non saprei dire se l’effetto era voluto o prodotto dalle telecamere. Ma certo aveva una certa efficacia».

La biografia che lei ha scritto, “The Trumps” mette in luce un aspetto singolare. L’immigrazione accompagna i destini del neo presidente ben prima della sua nascita: immigrato era suo nonno, immigrata sua madre, immigrate due delle sue tre mogli...
«Il nonno, Friedrich, arrivato negli Stati Uniti a 16 anni, a 35 cercò di tornare in Germania, ma le autorità tedesche lo rimandarono indietro. La madre, Mary Ann MacLeod, emigrò dalla Scozia in cerca di fortuna. Veniva da un paesino dove non erano rimasti molti uomini da sposare e gli Usa erano “the place to be”».

Le è andata bene.
«Sicuramente. Mary Ann MacLeod, che è scomparsa nel 2000, un anno dopo il marito, aveva un carattere estroverso e vivace. Donald in questo somiglia a lei. Fred Trump, il padre, non amava le luci della ribalta che invece tanto piacciono al figlio. Era un costruttore molto abile, sapeva come ottenere finanziamenti pubblici e come affrontare i competitor, ma gli piaceva restare dietro la scena».

Cosa imparò dal padre il giovane Trump?
«La competizione. Il padre lo incitava cosi: “Donald, be a killer”. Non lasciare spazio nella trattativa. E il figlio ha certo superato il maestro».

Immigrata, dalla Cecoslovacchia, era anche la prima moglie, Ivana.
«Donald Trump è sempre stato attratto dalle bellezze vistose. Ma devono soltanto essere decorative. Per questo con Ivana non ha funzionato: lei voleva la sua parte nel business».

Melania Knaus invece non ha di queste aspirazioni.
«No. Melania interpreta perfettamente il ruolo della moglie del maschio Alfa. Bellissima, con abiti sempre molto aderenti così che non si perda un centimetro del suo tonico corpo. Sta a casa e compare in pubblico quando serve, sempre un passo indietro. Siamo tornati alle first lady anni ‘50, al sessismo di un mondo semplice dove le donne stanno al loro posto».

Ivanka, però, la figlia nata dal primo matrimonio, è una preziosa consigliera del padre, ha avuto responsabilità nell’azienda di famiglia e ha anche avviato una sua attivita’ commerciale. Non proprio una “stay at home mum”.
«Oggi anche per Donald Trump sarebbe impossibile negare a una donna il diritto di lavorare. Ma è interessante notare il cambiamento che è intervenuto nella stessa Ivanka dopo il matrimonio. Per cominciare si è convertita alla religione del marito, l’ebraismo. Non è lui che ha abbracciato la sua, ma lei che è diventata ebrea. Da qui ha cambiato il modo di proporsi. La sua identità ora è quella di moglie-madre-figlia. Non è un’identità definita da un lavoro, come era per Hillary essere un noto avvocato, o da una battaglia civile, come per Michelle Obama. Ivanka è “la figlia di” . La moglie di. La mamma di».

Come mai gli elettori hanno perdonato a Trump qualsiasi cosa? Il sessismo, le tasse. Perfino i mormoni non hanno fatto un plissè per le foto nude di Melania...
«Donald Trump conosce il suo target. Ha avuto quarant’anni per vendere se stesso e più di dieci li ha passati in tv. È stato capace di riconoscere il disagio e la rabbia della gente, di dire “Vi capisco” e questo per gli elettori era più importante di qualsiasi altra cosa».

Anche Bernie Sanders diceva: “Vi hanno trattato in modo ingiusto”.
«Vero. Ma Trump è stato capace di dirlo meglio. È un grande performer, sa stupire, sorprendere. Hillary non ha mai detto qualcosa che stupisse, sembrava una professoressa. Donald ha quell’aria da cattivo ragazzo, ti aspetti che da un momento all’altro metta un dito nell’occhio dell’avversario. In campagna elettorale ha promesso di mettere un dito negli occhi dell’establishment: un messaggio potente, la gente gli ha creduto. Hillary non avrebbe potuto dire la stessa cosa. Che faceva, si metteva un dito nell’occhio da sola?».

L’establishment che Trump hia attaccato è quello che poi si ritrova nel suo resort di Mar-a-Lago, in Florida. Lei scrive che a Mar-a-Lago Donald si comporta da perfetto padrone di casa ma è un padrone di casa virtuale perché gli ospiti pagano per stare lì.
«Trump è virtuale in molte cose. Anche le sue torri non sono davvero sue: c’è il suo brand, che è un’altra cosa. La verità è che lui è accettato dalla gente comune perché è riuscito a trasformarsi nella versione cartoon del miliardario. Le sue case non riflettono un gusto da aristocratico, non ha una collezione d’arte moderna, non siede nel board dei musei. Gli piace mangiare la torta al cioccolato e per rilassarsi la sera si mette davanti alla tv e guarda il football. Come un ragazzo del Queen, ma con un sacco di soldi. Rockfeller non è mai stato visto come un campione della povera gente. Trump c’è riuscito».
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