Acrobazie da leader/ Puigdemont il catalanista sotto sfratto

di Lucio Sessa
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Giovedì 12 Ottobre 2017, 00:13
Tra i duellanti, il «taoista sornione» Mariano Rajoy e l’irruento naif Carles Puigdemont, il primo sta avendo decisamente la meglio.
Rajoy è uno che aspetta che l’avversario faccia harakiri, e intanto se ne sta tranquillamente seduto sulla riva del fiume, in attesa che passi il cadavere del nemico. Pugdemont si è infilato in un vicolo cieco, e come chi per riparare a una gaffe ne compie una peggiore, se n’è uscito con la surreale dichiarazione di «indipendenza sospesa». In realtà, ha fatto un bluff a carte scoperte, con cui sperava di costringere l’avversario a uscire dal guscio, ma Rajoy è un catenacciaro che ben conosce l’arte del contropiede, e così gli ha dato i «cinque giorni», applicando il cosiddetto «requerimiento», che è una sorta di ingiunzione prevista dalla Costituzione prima di applicare l’articolo 155, che sospenderebbe l’autonomia della Catalogna, trasferendone i poteri al governo centrale. E così la palla è stata rilanciata nel campo avversario, e Puigdemont ha cinque giorni di tempo per rigiocarla. Volendo sintetizzare: Puigdemont con la sua dichiarazione di «indipendenza sospesa», si è alienato le simpatie del popolo indipendentista, che all’uscita dal parlamento di Barcellona l’ha contestato dandogli del traditore; quelle del popolo unionista catalano se le era alienate già da un pezzo, e adesso è contestato pure all’interno del suo governo, dalla CUP, che voleva una dichiarazione secca e netta di indipendenza.

Un disastro, insomma. Ma chi è Pugdemont e in che modo è diventato presidente della generalitat? Cominciamo col rispondere alla seconda domanda: alla consultazione elettorale del 2015, la coalizione che risultò prima (Junts pel sí) e che era formata dal PDeCAT di Artur Mas e dalla ERC di Oriol Junqueras, non aveva i numeri sufficienti a governare. Chiesero quindi i voti alla CUP, formazione di sinistra radicale, anti-capitalista e indipendentista. La CUP accettò a una sola condizione: a capo del governo non doveva esserci Artur Mas, a loro dire troppo centrista e moderato, ma un outsider di nome Carles Puigdemont, che era stato sindaco di Girona. La CUP sapeva bene quello che faceva: aveva puntato sul più indipendentista del vecchio schieramento moderato di Convèrgencia i Unió, il partito di Jordi Pujol, che aveva governato la Catalogna per oltre vent’anni e che si era da poco sciolto dando luogo al PDeCAT. Ne consegue che il nuovo governo parte lancia in resta verso l’indipendentismo: era nato con questo obiettivo. Perciò adesso la CUP si sente tradita e potrebbe ritirarsi dal governo, provocando elezioni anticipate. 

E adesso rispondiamo all’altra domanda: «Chi è Puigdemont?». È stato costretto suo malgrado a «fare l’indipendentista» perché era questo il ruolo politico che gli avevano affidato? Nient’affatto. Abbiamo già detto che era stato sindaco di Girona, città a circa cento chilometri a nord di Barcellona. Aggiungiamo che si tratta della città più indipendentista della Catalogna, e che al referendum del primo di ottobre ha portato alle urne 60.000 cittadini su 100.000 abitanti. Ma la cosa più importante è l’intima natura catalanista di Puigdemont, che raggiunge picchi parossistici. Ha raccontato lui stesso che anni fa, quando l’indipendentismo era assai minoritario, se si trovava in un Paese straniero usava fare il check-in in albergo a notte fonda, quando il personale è assonnato o inesperto. In tal modo poteva più facilmente farsi registrare con una falsa carta d’identità catalana, e dunque risultare di «nazionalità catalana», almeno in albergo.

Altre cose ci racconta un libro intitolato «Puigdemont, el president @Krls, scritto da Jordi Grau e Andreu Mas. Ci racconta che ai caselli autostradali d’arrivo della Catalogna faceva di tutto per passare sotto il cartello che diceva «peatge», disdegnando quello in cui c’era scritto «peaje». Insomma, il pedaggio lo voleva pagare in catalano. E quando doveva andare da Barcellona a Madrid preferiva fare scalo in qualche città europea. In tal modo, se il viaggio si allungava, c’era la soddisfazione di entrare nell’aeroporto madrileno, proveniente da Barcellona, uscendo dal settore «voli internazionali». In sèguito è diventato presidente del govern che, come dice la parola, deve governare. Ha provato ad approvare la legge di bilancio, ma non ci è riuscito per l’opposizione della CUP. (E d’altra parte, come può governare una coalizione formata da un partito centrista, uno socialista e un altro di sinistra antagonista?). Rimaneva una sola carta da giocarsi: l’indipendentismo, e dagli aneddoti raccontati è facile inferire che non gli dispiacesse affatto. Nel discorso d’investitura da presidente affermò che l’epoca attuale «non è per i codardi, per i pavidi o per quelli a cui tremano le gambe». Detto fatto, di lì a poco licenziò cinque assessori del suo governo che avevano avanzato dei dubbi sul referendum del primo di ottobre, sostituendoli con altri cinque fedeli alla linea. 

La Catalogna ha dato i natali a Joan Miró e Salvador Dalí, due maestri del surrealismo, che però ci appaiono dei semplici dilettanti in confronto a Puigdemont, che in un programma televisivo dal titolo «Salvados», andato in onda il 24 settembre scorso, è arrivato a dire che relativamente al referendum «la generalitat non ha fatto propaganda né per il sì né per il no». Intanto, il gattone Rajoy, in un consiglio dei ministri dello scorso 6 ottobre, ha approvato un decreto per «semplificare la mobilità delle imprese sul territorio». E così è cominciata la fuga di banche e imprese dalla Catalogna.
 
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