Il calcio e Maietta secondo Pennacchi: «Distrutti da pregiudizi razzisti della Latina Bene»

Antonio Pennacchi
di Vittorio Buongiorno
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Domenica 12 Novembre 2017, 15:59 - Ultimo aggiornamento: 3 Agosto, 20:29

Gli scrittori vivono di infatuazioni, si sa. Non solo è legittimo, ma a volte produce anche capolavori. Tutto diventa più complicato però, quando si fa confusione tra fiction e storia, facendo passare come cronaca ricostruzioni prodotte da una mente creativa. Probabilmente è ciò che è successo l'altra sera, durante l'incontro dedicato al calcio e alla città nell'ambito del Festival della narrazione.

Lo scrittore in questione è Antonio Pennacchi. E che scrittore, premio Strega, autore del bestseller Canale Mussolini, intellettuale cittadino di punta, un maestro per tutti noi. Graziano Lanzidei, direttore artistico del Festival, lo ha coinvolto nella discussione dopo gli interventi di Vincenzo D'Amico e Ruben Olivera, chiedendogli di parlare di Palude, il protagonista del suo primo romanzo ispirato a un uomo in carne e ossa che giocava in porta. Come si sa, i portieri come i poeti, vedono le cose meglio degli altri perché riescono ad avere una visione complessiva degli accadimenti. Pennacchi, invece, l'altra sera ha giocato da mediano, si è buttato nella mischia pensando forse di essere Rino Gattuso detto Ringhio: più foga, che testa. Ha detto subito che di Palude non voleva parlare, anche perché «è morto l'anno scorso e se no mi metto a piangere». Voleva invece raccontare altro, perché dopo Canale Mussolini 1 e 2, lui si è bloccato. «E sono bloccato anche sul calcio», ha detto.
I due fatti sono collegati. Per spiegare il perché Pennacchi l'ha presa alla larga. Ha detto che il calcio è un fenomeno sociale e che i protagonisti non sono i ventidue in mutande che corrono dietro a un pallone, «ma i 100 mila che stanno dentro lo stadio». Perché «il calcio è primario fattore di integrazione sociale e dentro il calcio si giocano tutte le dinamiche della società, tutto il bene e tutto il male». Ha detto che «quando si parla di violenza del calcio si dimentica che c'è più violenza nella società».

Poi è entrato a gamba tesa sulla città, quasi volesse spaccarla in due, i buoni e i cattivi, e siccome a Pennacchi piace stupire i buoni non sono quelli che difendono le istituzioni. Ma ci è arrivato partendo dal vecchio Tiburzi, da quello della Pontina gas, che - dice lo scrittore - era rimasto l'unico ad andare a vedere il Latina. «E diceva sempre alla figlia: allo stadio c'eravamo solo io e gli zingari». E ci ha spiegato che «sono italiani pure loro», partecipavano, «alle feste dell'Unità e seguivano il calcio». Per lui erano i buoni.

E poi i cattivi. «Non c'è un solo caso di arricchimento che non ha visto, società in cui non ci siano prestanome, è comune a tutta Italia, è la nostra storia, non c'è un ricco della Latina bene che dietro non abbia questo tipo di scheletri». Pennacchi per dimostrare il teorema mescola di tutto. Tifo e violenza, Agnelli e Franceschini, la Juve e la Spal (che era fallita e grazie al sindaco è tornata in A, come a dire che invece Coletta non lo ha fatto). «L'arrivo del Latina in B è stato vissuto con enorme plauso e afflato dai paesi intorno alla città, via dell'Epitaffio non ci si poteva passare, calavano tutti dalle montagne, ma un forte distacco dell'establishment della città, fermo restando che nessuno deve commettere reati, se magistratura trova reati vanno colpiti, ma resta il fatto che l'attacco al Latina calcio in serie B e la chiusura è stata accettata ben volentieri da establishment, vorrei capire perché?».
Pennacchi racconta che Maietta è «un commercialista nero, sia nel senso che era un po' fascio, sia che era un po' più nero de lui (e indica Olivera)». E poi spara: «La Latina bene lo chiamava sempre il negro, e era amico di Cha cha, che chiamavano lo zingaro, allora io non vorrei che la città non si sia difesa da sé, ma che siano stati i poteri forti, a noi ce l'ha chiusa la Procura, ci ha cacciato la Procura dalla serie B. Non vorrei - ha concluso - che dietro ci fosse un pregiudizio razzista».

Gli ha risposto, benissimo, proprio Ruben Olivera: «Negro qui, negro là, non mi piace quello che dice questo signore. Io sono negro, mia moglie è negra, i miei figli sono negri, ma qui a Latina nessuno ci ha mai chiamato negri. Qui ho deciso di tornare, perché a Latina io e la mia famiglia viviamo bene».
Vittorio Buongiorno
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