La Capria: «La vita che scrivi più vera di quella che vivi»

La Capria: «La vita che scrivi più vera di quella che vivi»
di Mario Ajello
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Domenica 11 Febbraio 2018, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 13 Febbraio, 18:15
Dudù va per i 96 anni. «Ma solo adesso o meglio da quando sono diventato vecchio - così racconta Raffaele La Capria, per gli amici Dudù - ho cominciato a capire una cosa. Che la vita che tu scrivi è più vera di quella che tu vivi. Perché è contemplata e giudicata. Invece la vita che si vive la si vive distrattamente nel suo sviluppo quotidiano, che impedisce uno sguardo pieno, uno sguardo di pensiero. Hugo von Hofmannsthal diceva: "La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie". Dunque, sotto la superficie c’è tanto. E scrivendo, cioè ragionando, più che vivendo, si può scavare davvero nel senso della propria esistenza».

È stata una vita serena la sua, da “Ferito a morte” in poi, dalla giovinezza dei tuffi nel mare di Posillipo e libro dopo libro fino all’approdo alla saggezza da anziano? 
«Anni fa, lo scrittore Martin Amis consigliava di rendere obbligatoria una dose di stricnina a chi avesse superato i 70 anni. Per risolvere insieme il problema pensionistico e quello demografico. Io di anni ne ho quasi 96, li compirò il 3 ottobre prossimo, e pur amando gli aperitivi mi sento di rispondere così ad Amis: bevilo tu, se così ti piace, il tuo cocktail mortifero. Se lo avessi bevuto io, non avrei scritto tre o quattro libri che mi hanno dato qualche soddisfazione, non sarei stato tante volte felice, di una felicità diversa e più pacata anche quando molte ombre l’attraversavano, non avrei conosciuto altri Paesi, non avrei nuotato nei mari tropicali e visto le meraviglie di una barriera corallina e così via». 

Del resto la bellezza, Dudù, è sempre sembrata uno dei valori più profondi, quasi il nocciolo filosofico, della sua esistenza e della sua opera di scrittore. È così? 
«Anche in questo periodo, in cui la vita attiva mi è preclusa per l’età ma continuo a scrivere e mi sto esercitando in brevi riflessioni su vari argomenti, che poi manderò in giro e qualcuno li pubblicherà, mi sto interrogando sulla bellezza. Della vita familiare, per esempio. O della scrittura. La forma è molto importante. E credo che perfezionandola sempre di più, cercando l’armonia perfetta o almeno quella che a me così appare, credo di lasciare una testimonianza che magari potrà servire». 

Sta scrivendo i suoi ricordi? 
«No. O almeno non sono ricordi come quelli che fanno i vecchi. Sono piccole meditazioni su varie cose». 

E la bellezza l’ha sempre colpita e stimolata? 
«Sì, a me piace la bellezza. Quella che non ha bisogno di spiegazioni. La bellezza che ti colpisce e basta. La bellezza dei Bronzi di Riace è una bellezza: numinosi apparvero dal mare e non mi domandai che cosa significano. Le Demoiselles d’Avignon, di Picasso, invece le devi spiegare. A prima vista sembrano brutte, poi te le spiegano e diventano belle. Giuliano Briganti, lui che queste cose le sapeva, mi disse una volta che la storia dell’arte si divide in due grandi epoche: ante Demoiselles d’Avignon e post Demoiselles. Come la nostra storia è ante Christum natum e post». 

Lei segue la politica, o alla sua età si è stufato? 
«Non la seguo tanto, forse perché a 95 anni ne ho viste tante e forse troppe. Ma considero importante e necessaria la politica, quando non si limita al talk show che è un genere fastidioso e fuorviante. Sono stato nella mia vita piuttosto vicino ai Radicali. Lo sono tuttora. E voterò per Emma Bonino, per Più Europa. Le mie idee e le loro sono spesso coincise. Io credo nei limiti della giustizia, nel garantismo, nell’approccio illuministico di Cesare Beccaria, nei diritti di libertà». 

Da napoletano, lei ha sempre vissuto a Roma. La vede peggiorata? 
«La vedo, purtroppo, sempre uguale a se stessa. Non c’è qualcosa di nuovo che la anima. Non vede se stessa nel mondo, non vede il futuro davanti a sé. È una città rassegnata al non fare». 

Ma alla sua età, il futuro interessa ancora? Una volta Vittorio Foa, poco prima di morire ormai cieco a 98 anni, disse: «Non ho mai avuto così forte, come adesso, la curiosità nei confronti dell’avvenire».

Lui non si chiuse al mondo. E lei? 
«Neppure io. Certo, non ho la forza di scrivere più sui giornali. Ma credo di essere attento a tutto ciò che accade, e intervengo quando posso. Naturalmente il futuro che m’interessa non è il mio, perché non ho più futuro. L’eliminazione dei vecchi era una consuetudine e un rito presso alcune tribù, dove il problema di procurarsi il cibo per tutti era drammatico e assillante».

In quelle o altre tribù, per risolvere il problema alimentare, magari applicavano la «modesta proposta» di Swift: mangiare i bambini. 
«Comunque questo problema non esiste più, e sia i vecchi sia i bambini sono salvi. Quanto al mio modo di pensare al futuro, è quello di scavare nella memoria, senza scrivere però i soliti libri di ricordi come fanno i vecchi. L’età che ho raggiunto m’impedisce ogni azione diretta, mi esclude da ogni chiamata alle armi, ma leggo, discuto, mi sforzo di capire il mondo come, nel mio piccolo, ho sempre cercato di fare. L’unica battaglia che mi consento è quella delle parole».

L’Italia è peggiorata negli ultimi decenni? 
«Non credo. E poi quest’idea che tutto debba sempre peggiorare non mi è mai appartenuta. Questo Paese è stato più genialmente creativo nel denigrarsi? E qualche Paese ha più genialmente capovolto il senso di questa auto-denigrazione, trasformandola in un’allegra benché impietosa, teatrale forma d’arte? Parlare male di sé, come facciamo noi italiani, può avere insomma molteplici e complicati risvolti, e può anche essere inteso come una terapia di chi sa di essere malato, ovvero anomalo, ma sa anche che alla fine ce la farà». 
 
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