Gaza, i bimbi salvati dal sacrificio delle mamme e ricoverati in Italia: da Aisel a Ibrahim, ecco le loro storie

Il racconto delle madri che hanno scelto di far partire i figli ancora intubati

Gaza, i bimbi salvati dal sacrificio delle mamme e ricoverati in Italia: da Aisel a Ibrahim, ecco le loro storie
di Raffaella Troili
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Giovedì 14 Marzo 2024, 00:12 - Ultimo aggiornamento: 13:46

La mamma di Aisel si è girata verso l’incubatrice che teneva in vita la figlia di 4 mesi e ha detto: «Partiamo, voglio darle una possibilità». Ora la piccola, il cui nome in arabo significa “Luce della Luna” è al Gaslini di Genova, il viaggio verso la salvezza è riuscito. Madri coraggiose, che hanno scelto di farli partire, rischiando, nonostante fossero intubati e in condizioni critiche, per dar loro una chance di vita. Altre madri sono assenti, morte per proteggere i figli. «E’ l’unico ricordo che mi resta di mia figlia», sussurra la nonna, guardando Ibrahim, il piccolo di 10 mesi che la mamma di 28 anni ha protetto fino all’ultimo con il suo corpo, sotto i bombardamenti di Gaza. Erano a casa, lo scorso 26 dicembre: lo hanno trovato ferito, la giovane donna era accucciata sopra di lui, morta assieme a un’altra figlia di 7 anni; gravemente feriti e ustionati, un altro fratellino e il papà. È uno dei piccoli palestinesi arrivati in Italia per essere curati nei nostri ospedali con un volo dell’Aeronautica militare. Si trova al Meyer di Firenze. Racconta Laura Mori dei servizi sociali ospedalieri che assieme alla collega Sandra Niccoli si sta occupando di loro: «Il piccolo è accompagnato dalla nonna. La sua abitazione è stata bombardata, tutti i familiari sono morti o gravemente feriti». Dopo esser stati in vari ospedali locali sono stati evacuati da Gaza a Rafah in strutture al collasso. La nonna ha lasciato lì marito, cinque figli, nipoti. Lo doveva a quella figlia, la più grande, che non c’è più. «Il bimbo durante il volo verso l’Italia è l’unico che non ha pianto, non si è mosso, è rimasto fermo e spaesato per cinque ore, un sorriso accennato», racconta Laila Monami mediatrice culturale dell’Inmp, istituto nazionale per la promozione della Salute delle popolazioni migranti, che su input del ministero è andata a prenderli ed ha volato fino in Italia con loro, in tre missioni. Il piccolo ha ferite da scheggia nella coscia sinistra, nel braccio e nel cranio, dovrà essere operato. Con lui è stato ricoverato anche un bambino di 7 anni, che ha una malattia metabolica. 

 

Spaesati, stravolti dal lungo viaggio ma ricorda Monami: «Dopo il silenzio, la preoccupazione, gli sguardi cupi, cominciano a sorridere, vedi il loro volto cambiare. Ancor più quando sanno dove sono diretti: l’Italia era quel che volevano». E non è sfuggita la meraviglia di molte donne e adolescenti coperte dal velo, «quando hanno visto che la comandante era donna, avevano espressioni di curiosità e ammirazione. È stato il loro primo approccio con l’Italia...». Altro messaggio da veicolare: le divise non fanno paura. «La prima cosa che spieghiamo ai bambini è che il personale dell’Aeronautica militare è venuto per portarli al sicuro, per curarsi. Anche grazie alle capacità straordinarie dei militari italiani si riesce dopo poco a instaurare un rapporto bellissimo fatto di giochi, scherzi, caramelle, bolle di sapone». La mediatrice ha impresso il ricordo di Abdelrahman, 6 anni, ha visto la mamma, il fratello e i cugini morire davanti a lui, ha riportato una frattura al cranio e una lesione al cuoio cappelluto. «Al nostro arrivo all’Ospedale Italiano Umberto I al Cairo piangeva disperato quando ha visto i nostri militari, diceva alla nonna “non voglio tornare a Gaza, non voglio andare con loro”.

Ci abbiamo messo un po’ per tranquillizzarlo, spiegargli che sono “divise gentili”. Gli abbiamo promesso che avrebbe potuto vedere la cabina di pilotaggio, era felicissimo». Molti bambini, come lui, sono accompagnati da altri familiari, perché hanno perso i genitori. «Quando sono sicuri di partire cominciano a giocare. E guardano dai finestrini l’immensità del cielo». Forse non pensavano di rivederlo più..».

I PICCOLI SENZA ARTI

Anche in ospedale all’inizio restano nelle stanze in silenzio, pian piano cominciano a uscire e sorridere. «Molti sono arrivati senza genitori, li supportiamo, rincuoriamo - ancora Laura Mori - il primo giorno di Ramadam abbiamo attivato famiglie palestinesi della zona per far sì che si sentano accolti. Il lavoro non si ferma in ospedale, continuiamo a prenderci carico delle famiglie per ottenere permessi, medicine e visite. Sono tutti molto debilitati, vengono dalla guerra». Dopo l’ultima missione umanitaria a cui il ministero della Salute partecipa attivamente nel dislocare i pazienti e supportare le famiglie, i nosocomi stanno cercando di accudire al meglio i piccoli. Al Rizzoli di Bologna a febbraio, è arrivata una bimba di 4 anni, con la zia: le avevano amputato un arto senza anestesia, disinfettata con acqua piovana. I primi giorni non si faceva avvicinare dai medici. E non voleva vedere l’arto, subito gli occhi si riempivano di lacrime. Con pazienza volontari e dottori l’hanno coperta con un telo, piano piano ha ricominciato a sorridere, si aggira sulla sedia a rotelle e presto subirà un intervento risolutivo, per poter tornare a stare in piedi. Molti come lei hanno subito l’amputazione degli arti. Piccoli guerrieri anche loro.

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