Dario Argento: «I miei occhi sulla paura che è dentro tutti noi»

Dario Argento: «I miei occhi sulla paura che è dentro tutti noi»
di Malcom Pagani
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Domenica 25 Giugno 2017, 00:48 - Ultimo aggiornamento: 30 Giugno, 19:14
L’equilibrio è un’esclusiva di chi sta in disparte: «Con la solitudine mi sono sempre trovato benissimo. Ero solo nella soffitta di casa mia, quando a 11 anni mi rifugiavo a leggere Shakespeare o Le mille e una notte al riparo dagli sguardi indiscreti e sono solo adesso, che ne ho quasi 77 e proprio come ieri mi assegno regole che a seconda dell’inclinazione del momento rispetto o trasgredisco». Ci sono notti in cui Dario Argento lascia che libri o film lo trascinino ai bordi dell’alba, a stretto contatto con la sua esistenza di ieri: «Facevo il giornalista a Paese Sera e curavo la pagina degli spettacoli, rientravo a casa alle quattro di mattina, accendevo la radio e mettevo su l’acqua per la pasta mentre le prime luci del giorno si affacciavano dalla finestra» e altre notti in cui il sonno ha la meglio: «Perché il tempo passa e alla stanchezza ho imparato a dare retta».

A mezzo secolo dalle interviste che faceva ai Beatles, la musica è cambiata e a restare identico è il desiderio di silenzio: «In questo appartamento del quartiere Trieste ce n’è tanto. Ne ho bisogno per pensare, per inventare, per viaggiare con le mie fantasie. Non conosco il tedio. La parola noia non mi sono mai azzardato a pronunciarla». Con il proliferare di premi alla carriera, l’ultimo, il Globo d’oro, pochi giorni fa, Dario Argento è costretto suo malgrado alla storicizzazione biografica.

La memoria, dice: «È un affare strano. Alcune immagini sono vivide, altre sfocate, altre ancora volutamente rimosse dall’inconscio. Le atmosfere però, le sensazioni di fondo, me le ricordo tutte».

Che effetto le fanno le sensazioni della giovinezza? 
«Vedo le tappe una a una. L’anno passato tra le coltri, con una serie febbre reumatica, a divorare libri. La mia fuga a Parigi in treno, da quindicenne curioso, senza una lira in tasca. Le notti in tipografia fino alle tre. I primi soldi, pochi, che L’araldo dello spettacolo, la rivista con cui esordii, mi riconobbe dopo un periodo in cui avevo scritto gratis. Il ruoletto da prete che interpretai in Scusi lei è favorevole o contrario? di Alberto Sordi». 

Come arrivò a fare cinema? 
«L’immaginario visivo l’avevo introiettato per eredità. Mio padre Salvatore, dopo un passato da partigiano in Jugoslavia, era produttore. Mia madre invece, Elda Luxardo, arrivata dal Brasile con suo fratello Elio, era passata rapidamente dalle sfilate alla macchina fotografica. Immortalava Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Nel suo studio, a osservare i gesti lenti e il processo magico della camera oscura, avevo passato un’infinità di ore». 

Però iniziò facendo il giornalista. 
«Di quegli orari assurdi ero felice e pensavo che quella sarebbe stata per sempre la mia vita. Nel giornale in cui lavoravo, Paese sera, erano quasi tutti molto più adulti di me. Ero un ragazzino, non avevo famiglia e potevo impegnarmi. Di giorno passavo da un’intervista a un film, poi verso l’ora di cena entravo in redazione, mangiucchiavo una cosa alla mensa e tiravo fino a tardi». 

Che sogni aveva? 
«Nessun sogno di conquista. Il mondo volevo conoscerlo, non dominarlo». 

Chi le diede la prima occasione? 
«Me la diedi da solo, leggendo un copione che mio padre aveva portato a casa dal suo ufficio. Capii il meccanismo, l’importanza dei dialoghi, il sistema che permetteva di trasformare un’idea in una scena. Lo replicai con grande facilità e iniziai a scrivere qualche sceneggiatura nei tempi liberi che il mio mestiere mi lasciava». 

Con Sergio Leone e Bernardo Bertolucci scrisse il soggetto di C’era una volta il west.
«Sergio era molto simpatico, aperto e coinvolgente. Ti telefonava all’improvviso: “Hai visto a questi poveri disgraziati di Firenze che cosa gli è successo?”. C’era stata l’alluvione di Firenze, ci mettemmo in macchina e partimmo subito per dare una mano in quel disastro di fango e melma del ‘66. Leone era generoso e aperto nei confronti dei giovani talenti. Se chiudo gli occhi la sua risata larga e senza freni durante le riunioni posso sentirla ancora. Bernardo me lo presentò lui, ci fece incontrare e diventare amici intorno a un tavolo, scrivendo».

Dalla critica ufficiale, prima di essere successivamente incensato, il cinema di Leone era osteggiato.
«Da Tullio Kezich in giù, sostenevano tutti che il suo cinema fosse poco meglio della merda. Una sotto, sotto serie B, piena di violenza gratuita e volgarità. Da giovane critico ero in totale disaccordo e cominciai a contestare aspramente il loro punto di vista. All’epoca, sopra la redazione di Paese Sera c’era quella dell’Unità. Con Savioli, il mio omologo di allora, armavamo discussioni feroci sul cinema di genere». 

La sua passione di allora? 
«Scrivere. Articoli, racconti, digressioni e storie da sviluppare che non di rado prendevano la strada del cassetto. Pigiavo all’impazzata sull’Olivetti perché scrivendo a penna dei miei appunti non avrei capito nulla». 

Il suo primo film, l’Uccello dalle piume di cristallo, è del 1970.
«Non lo voleva finanziare nessuno. In principio si dissero interessati i Cicogna, poi Italo Zingarelli della West film, l’inventore dei film di Bud Spencer e Terence Hill, un omone che era stato stunt-man, si era reinventato produttore, mi aveva coinvolto in un paio di sceneggiature e che incidentalmente era anche un carissimo amico. Di affidarmi un debutto però non se la sentiva e me lo disse senza giri di parole: “Ah Dà, io te vojo bbene, ma ‘sto film non lo vojo fà”. A quel punto mi ricordai che avevo buoni rapporti con Goffredo Lombardo della Titanus. Bussai alla sua porta e a lui quel racconto da trasformare in film piacque: “Mi convince, lo facciamo”. Trovata la distribuzione mi misi in marcia. Allora fare cinema per un ragazzo era molto più facile di oggi». 

Attore protagonista de L’uccello dalle piume di cristallo, Tony Musante. 
«Primo giorno di riprese e litighiamo subito. Doveva prendere un mazzo di chiavi dalla tasca e aprire una porta. Un gesto semplice che non richiedeva nessuna particolare prova d’attore. Dico “azione” e vedo Musante contorcersi in smorfie, moine e pagliacciate varie. Fermo tutto e lo prendo da parte: “Non devi fare il buffone, ma solo mettere le chiavi nella toppa”. Lui si ribella, mi risponde che sono un ragazzino e che lui è un attore affermato. “Mi devi seguire - sibila - e devi stare al tuo posto. Conviene a tutti”. “Col cazzo - replico - conviene solo a te e se vuoi fare nonnismo con me caschi male”. Discutiamo per mezz’ora. Una cosa comica. Un teatrino. Mi arrabbiai davvero. Un po’ perché ho anche io le mie durezze, un po’ perché non sono un regista tenero e un po’ perché sul set ho sempre preteso che tutti, attori e maestranze, seguissero il mio progetto. Il capitano sono io e si fa come decido io».

Musante non era d’accordo
«Ci sono attori, penso a David Hemmings o a Karl Malden, il maestro di Marlon Brando, con cui mi sono trovato benissimo. E altri come Musante o Cristina Marsillach con cui ho antipatizzato fin dal primo giorno di lavoro in comune. Cristina si lamentava dei vestiti succinti che le facevo indossare in Opera: «Si vedono le mie forme” protestava e io: “È il cinema e il cinema si fa così, mettendosi in gioco, lasciando il pudore a casa”». 

Cosa cerca in un attore? 
«Che mi dia qualcosa di suo, che torni in albergo pensando alla scena del giorno dopo e si presenti sul set con un’idea. Che si confronti e non provi ad imporsi. Che non sia prepotente, perché se la mettiamo sul piano della prepotenza, allora, non foss’altro che per ruolo, vinco sempre io». 

L’uccello dalla piume di Cristallo, presentato in questi giorni in versione restaurata alla rassegna del cinema ritrovato di Bologna, fu un grande successo. 
«Anche in America, dove incredibilmente si issò per qualche settimana in testa alle classifiche degli incassi. Avevo trovato una chiave, una chiave universale che univa il quartiere Flaminio e Via Donatello, dove ambientai la prima scena del mio film, alla Corea o a una strada di New York, una chiave che sapevo mi avrebbe portato lontano. Nei miei film non ho mai parlato dell’Italia, ma ho affrontato paure e timori universali. Un linguaggio dell’inconscio, dei sogni e delle allucinazioni che non ha frontiere né passaporti». 

Cos’è la paura per lei? 
«Un sentimento. Un’emozione. La vera paura non è quella che provi guardando un film. La paura che produco è artificiale, è qualcosa che ha a che fare con il mio subconscio, con una sfera di analisi che in molti rimuovono. Io ho deciso semplicemente di andare a vedere il mio lato oscuro, un lato che esiste in tutti noi e che qualcuno, per il terrore di rimanerne rapito, si nega a prescindere. Nell’imminenza di un film sogno cose fosche, crude, cupissime». 

Con il suo quinto film, Profondo Rosso, entrò nell’Olimpo dei maestri. 
«Tra uccelli, gatti e mosche, con gli animali avevo dato. Avevo capito di aver raggiunto un limite narrativo che difficilmente sarei riuscito a superare, così decisi di seguire l’istinto cambiando genere e affrontando una storia che avesse a che fare con i segreti ancestrali di una famiglia e le emozioni di stampo quasi surrealista o se preferisce psicanalitico». 

In Profondo Rosso il sangue è più rosso e la paura inquieta di più. 
«Lo scrissi in una piccola villetta disabitata e abbandonata di mia proprietà alle porte di Roma. Non ci andavo da anni, c’era polvere e avevano staccato la luce. Mi parve un posto perfetto. A Mentana andavo tutte le mattine all’alba e rimanevo fino all’imbrunire. Era l’estate del 1974. Scrissi a ritmo indiavolato perché sapevo che dovevo liberarmi dell’urgenza. Ogni tanto mi veniva a trovare mio padre, mangiavamo due porcherie in una bettola poco distante e poi lo salutavo per ricominciare. Sembravo posseduto. Il foglio bianco si riempiva e pareva che le immagini si muovessero sul foglio. Stava nascendo il film». 

Finì in fretta? 
«In due settimane. Un tempo record. Scrivevo di sabato e di domenica perché volevo finirlo in fretta. Avevo mandato mia figlia Fiore a Sabaudia. Con un malloppo di pagine, la raggiunsi non appena finii. La rividi dall’alto della spiaggia, felice, a giocare tra le onde. Mi spogliai. Mi tuffai. Credo sia stato il bagno più bello, limpido e liberatorio della mia vita». 

Suspiria, 1977, compie quarant’anni. Luca Guadagnino ha preparato un remake con Tilda Swinton. 
«Ho incontrato Tilda a Cannes, è stata gentile, proprio come Luca che ha amato molto il film e durante le riprese, a Varese, mi aveva anche invitato sul set. Prima gli ho detto di sì, poi ho cambiato idea e l’ho richiamato: “Scusa, ma non me la sento”. Era dispiaciuto, ma penso che abbia capito». 

Perché non è andato? 
«Ho pensato che visitare il set di un altro regista che rifà il tuo film a quarant’anni di distanza non avesse senso. “E se poi non mi riconosco e mi arrabbio?” mi sono detto. Meglio così. Ma lo vedrò con animo sgombro, senza alcun pregiudizio».

 Suspiria è il suo miglior film? 
«Non lo so, lo è sicuramente per gli americani. Ma non credo nelle classiche, soprattutto in quelle retrospettive. Sa quante volte mi sono sentito dire: “Non è più l’Argento di prima”?».

Quante? 
«Un’infinità. All’inizio mi arrabbiavo, poi ho imparato ad aspettare. Il tempo è sempre galantuomo». 

Dario Argento ha eredi? 
«Non li voglio, non li cerco, non aspiro a insegnare niente a nessuno. La penso come Sergio Leone: «Dei miei allievi non so niente e niente voglio sapere». 

Berlusconi, sportivo, la apprezzava nonostante in “Tenebre”, a Veronica Lario lei avesse fatto amputare un braccio con una mannaia. 
«Era un film, era finzione. E Berlusconi della parola finzione ha sempre conosciuto il significato. Me lo ricordo simpatico, vivace e dinamico. Una volta mi disse: “Da lei abbiamo soltanto da imparare”. Prima e dopo non me l’ha detto più detto nessuno».

Alla proiezione di “Tenebre” Berlusconi venne? 
«Insieme a Veronica, che dopo quella volta non rividì mai più e all’epoca era una ragazza bolognese di sinistra che si affacciava al cinema. La sala era affollatissima e per Berlusconi non c’era posto. Si sedette sul marmo: “Se c’è un bel film, la scomodità è l’ultimo dei problemi”. E non mosse un ciglio per un’ora e mezza».

Lei è diverso da come uno se la immagina. 
«A qualcuno, non ai miei vicini che mi conoscono bene, faccio paura. E fanno paura le mie fantasie. Ma sono sempre stato un uomo tranquillo. Non sono Edgar Allan Poe. Feci un documentario sulla sua vita e scoprii un’esistenza squallida, da alcolista oppiomane irrimediabilmente avviato sulla strada della perdizione. Quando ricevette il premio del Congresso americano per Il Corvo non potè andare a ritirarlo perché era ubriaco fradicio e vagava per la sua città abbrutito, come un animale».

I suoi vizi? 
«Ho avuto qualche problema con le dipendenze prima di capire che alimentavano le mie paranoie e nutrivano i mie fantasmi. Vizi di cui non avevo alcun bisogno per creare e che ho abbandonato da decenni».
 
Dell’arresto per pochi grammi di hashish cosa ricorda? 
«Che in galera, per pochissimi giorni, giocai molto a briscola e stetti bene, trattato bene da sorveglianti e detenuti. E poi ricordo distintamente la frase che dissi con il sorriso al maresciallo uscendo di casa». 

Cosa gli disse? 
«”Mi raccomando, non facciamo che torno e vi siete fumati la robba mia”, così, in romanesco». 

Fuma ancora? 
«Non più, neanche la sigarette. Ho una tosse asmatica. Il mio vizio è il nuoto. Vado in una piscina sul fiume, quando per un anno, dopo essere caduto dalle scale non ho potuto farlo, passai mesi orribili. Mi stava cambiando il fisico, annaspavo, soffrivo, ero triste».

E oggi per cosa soffre? 
«Per niente che mi riguardi da vicino. Ho buoni rapporti con le mie figlie, con le persone che incontro, scrivo film, opere liriche, libri. Tengo la testa viva, continuo a star bene da solo, ogni tanto seguo i consigli della mia fidanzata e vado al mare. Finchè nuoto, vivo. E il nuoto non domanda l’età. Puoi nuotare fino a quando non muori e forse pure oltre». 
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