Fenaroli, il primo giallo che appassionò l’Italia

Fenaroli, il primo giallo che appassionò l’Italia
di Carlo Nordio
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Sabato 17 Giugno 2017, 00:27 - Ultimo aggiornamento: 19 Giugno, 19:40
Maria Martirano fu strangolata la sera del 10 settembre 1958 nel suo appartamento di via Monaci, una zona residenziale di Roma nei pressi di piazza Bologna. Il suo corpo fu trovato la mattina seguente: la casa era sottosopra e i gioielli erano spariti. Tutto lasciava pensare a una rapina, ma la polizia non si convinse, e cominciò a sospettare del marito, l’ingegner Fenaroli. Un costruttore chiacchierato e traffichino, che aveva assicurato la vita della moglie per centocinquanta milioni, falsificandone la firma sulla clausola che prevedeva la morte violenta. Si aprì così il caso giudiziario più clamoroso del secolo scorso.

La vittima aveva un passato ambiguo, e i rapporti con il marito erano da tempo deteriorati. Fenaroli era al limite del fallimento, e quella somma, allora colossale, lo avrebbe salvato. Ma aveva un alibi di ferro: la sera del delitto era a Milano, in azienda. Per di più sembrava affranto dalla morte di Maria, e al funerale svenne due volte. La commedia tuttavia non funzionò. Gli investigatori torchiarono il suo più stretto collaboratore, l’ingegner Sacchi, che sembrò reticente e ambiguo. Arrestato per falsa testimonianza, svelò l’intrigo: Fenaroli aveva spedito da Milano “un certo Raoul” preannunciandone la visita alla moglie, con il pretesto di consegnarle documenti importanti. La donna, benché sospettosa, e già vittima pochi giorni prima di un tentativo di effrazione, lo aveva accolto in casa: e lui l’aveva strangolata. Il sicario, compensato con un milione, fu identificato in Raoul Ghiani, un robusto operaio ventisettenne, apparentemente mite e comunque incensurato. 

Ghiani fu arrestato, e contro di lui le prove cominciarono a fioccare come d’incanto: fu riconosciuto da una donna come il visitatore ricevuto quella sera dalla vittima, e da un passeggero del treno con il quale era subito ritornato a Milano. Furono acquisiti i biglietti del vagone letto sul quale aveva viaggiato, a suo nome, la sera del primo tentativo, quello andato a vuoto. Furono infine trovati i gioielli della vittima, nascosti nel suo luogo di lavoro. Lui e Fenaroli negarono di conoscersi, ma furono smentiti da vari testimoni e dalla loro corrispondenza in carcere. Il suo alibi non resse: la polizia dimostrò che, uscito di fabbrica alle 6,30, poteva arrivare alla Malpensa in tempo per prendere il volo per Roma. L’Alitalia confermò che quella sera un signor Rossi fu imbarcato all’ultimo minuto. Rossi, aveva detto l’ing. Sacchi, era Raoul Ghiani.

Di fronte a una tale valanga di indizi e di prove, chiunque avrebbe pensato a un processo facile dall’esito scontato. Invece il Paese si divise, come mezzo secolo prima aveva fatto la Francia con l’affaire Dreyfus. Ma qui la politica non c’entrava, e forse proprio questo rendeva il caso più avvincente. Il pubblico aveva appena assistito, indispettito e deluso, all’epilogo di un processo costruito sulla morte della giovane Wilma Montesi, trovata morta qualche anno prima sulla spiaggia di Torvaianica. Si era parlato di droga, di sesso e di orge, e per un po’ la morbosità collettiva aveva catturato mezza Italia. Poi si scoprì che si era trattato di una vergognosa montatura per eliminare, per via giudiziaria, un autorevole esponente democristiano. La storia si sarebbe ripetuta, e purtroppo continua.

INGREDIENTI
Il caso Fenaroli, invece, aveva tutti gli ingredienti di un giallo autentico, resi più appetibili da uno intrigante profumo di modernità: il vagone letto, l’aereo, il rapido della notte, persino l’esperimento della Giulietta della Polizia, lanciata a cento all’ora, per coprire il tragitto Milano-Malpensa in quarantacinque minuti. L’Italia rurale e semianalfabeta, che stava faticosamente uscendo dalla miseria, assistette ipnotizzata alla ricostruzione di un omicidio che imitava i più suggestivi gialli americani.

Il dibattimento davanti alla Corte di assise di Roma ebbe un seguito mediatico da far impallidire – tenuto conto dei mezzi di allora – persino i processi di Tangentopoli, di Cogne e del mostro di Firenze. I giornali della sera riportavano, con un miracolo di tecnologia, la sintesi, e persino i resoconti stenografici dell’udienza del mattino. I difensori, sui quali signoreggiava il professor Carnelutti, “Maestro dei Maestri”, fecero l’impossibile per screditare i testimoni, minimizzare gli indizi, e persino prospettare soluzioni alternative. Requisitoria e arringhe finirono sulle riviste di diritto, e gli addetti ai lavori si accorsero che stava finendo l’era degli avvocati agitati e un po’ tromboni. La dialettica sostituì la retorica, e la cultura giuridica cominciò un faticoso percorso di modernizzazione. Il presidente La Bua controllò in modo magistrale questo straordinario parterre di toghe, di inviati speciali e di pubblico incantato. Il giorno della sentenza, migliaia di romani bivaccarono davanti al Palazzaccio, e la radio tenne un costante collegamento, quale non si era visto neanche per l’agonia di Pio XII, pochi anni prima. All’alba dell’11 giugno 1961 tutta l’Italia era sintonizzata sul programma nazionale, e senti la parola “ergastolo”.

VERDETTO
Stranamente, le polemiche finirono: anche i più accaniti innocentisti accettarono disciplinatamente il verdetto. Quando, due anni dopo, la condanna fu confermata in appello, per diventare poi definitiva in Cassazione, l’Italia stava già pensando ad altro. Fenaroli morì in carcere nel 75; Ghiani fu graziato nel 1984. Tutti si erano proclamati innocenti, ma senza troppa convinzione. Riletti a distanza, gli atti dimostravano davvero la loro colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.

Il processo Fenaroli fu una fine e un inizio. Esso costituì uno degli ultimi esempi di una cronaca giudiziaria attenta, professionale, tecnicamente preparata. Avendo il quasi monopolio dell’informazione i giornali investivano molto in questo settore che faceva aumentare le copie in modo esponenziale. Ma questo successo decretò anche il lento declino dell’inviato speciale, esperto del settore, capace di un commento critico e indipendente. Con tangentopoli la stampa ci riprovò, ma senza grande successo. A parte qualche voce fuori dal coro, si assistette a un progressivo appiattimento del cronista sulle tesi dei dispensatori di veline, dai quali dipendeva la diffusione della notizia, spesso sapientemente confezionata. Per arrivare ai tempi attuali, dove la gran parte dei cosiddetti “scoop” è costituito dalla diffusione di intercettazioni, anch’esse adeguatamente tagliate e maliziosamente pilotate. Ma questa è un’altra storia.
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