Jonathan Coe: «Cara Inghilterra, non ti riconosco»

Jonathan Coe: «Cara Inghilterra, non ti riconosco»
di Renato Minore
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Martedì 5 Luglio 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 10 Luglio, 14:35
Un catalogo ragionato dei mali che affliggono l’Inghilterra di oggi. Con «le oscure energie collettive che danno vita al reality show e s’incanalano nelle gogne dei social media, con i crimini economici industriali di una classe che ancora domina impunita e le perversioni di un mondo anche intellettuale che sceglie il denaro come misura di ogni cosa». Così Jonathan Coe parla del suo nuovo romanzo, Numero undici (Feltrinelli), una costellazione di storie e di intrighi che vanno dall’invasione dell’Iraq agli anni austeri della Gran Bretagna che conosciamo oggi, lasciando una forte sensazione di disillusione e timore per un futuro fatto di reality sadici, upper class imbarazzante, una società in cui si mercifica tutto.

Una favola nera su come «spettacolo e politica si disputino la nostra attenzione», sull’«infinità di piccole grandi connessioni tra pubblico e privato», dice Coe, con al centro la misteriosa morte di David Kelly, lo scienziato britannico che ha rivelato le bugie di Blair sulla guerra in Irak. In questo caso egli si sente «meno impenitente, sarcastico, spiritoso del solito», ma un po’ più amaro e cupo «per la piega che da qualche tempo ha preso la mia Inghilterra e anche nostalgico per una stagione segnata da una maggiore innocenza, o comunque da una maggiore pulizia interiore». 

Il 55enne scrittore è a Pescara, dove ha appena ricevuto il premio Internazionale Flaiano, nel nome di uno scrittore come lui satirico. C’è qualcosa che collega al suo lo sguardo di Flaiano sulla realtà. Non solo il disgusto per l’amoralità del sistema, ma anche una selvaggia indignazione swiftiana contro i costumi moderni. Il graffio satirico lo avvicina alla scrittura di Flaiano?
«Io di Flaiano ho letto Tempo di uccidere, un romanzo intenso e appassionante, ma il meno satirico dei suoi libri. Lo conosco però bene come autore delle sceneggiature di Fellini e so quanto Fellini gli sia debitore... Ho utilizzato il “metodo” della Dolce vita, un film che ho molto amato. Della macchina di scrittura di Fellini amo il metodo degli “scatti fotografici” che permettono di rappresentare la realtà della società e le future direzioni in modo più forte e veritiero».

Nel libro un personaggio comincia a uccidere i comici. Si può dire che il Comico sia stato in qualche modo soppresso anche nel romanzo, con i suoi rappresentanti?
«In Inghilterra credono che la satira possa cambiare tradizione e cultura. Nella attuali condizioni politiche e culturali però non è più così, il tempo della satira è terminato. Il gesto del mio personaggio fotografa una nuova condizione».

Lei utilizza anche modelli narrativi tipici dell’horror. In questo modo la satira diventa più potente, più convincente, interroga le nostre convinzioni invece di confermarle?
«Provoco una risposta tramite l’horror, in mancanza di satira. Cerco di rimuovere la distinzione tra alto e basso, politicamente e culturalmente fin troppo corretta. E’ un modo di porsi contro ogni forma di elitarismo. Da almeno quindici anni sono sempre meno satirico. Cerco un modo per enfatizzare certe caratteristiche dei miei personaggi piuttosto che riderci sopra. Nella Famiglia Winshaw i personaggi più “cattivi” sono solo a due dimensioni. Ora sono più complessi, più poliedrici».

Tra i tanti oggetti di critica ci sono i social media. Secondo lei hanno cambiato per sempre il nostro modo di intendere la realtà?
«La velocità e la ripetizione oggi sono qualcosa d’incredibile, le news e le opinioni vanno rapidissime, abbiamo meno tempo per riflettere, per analizzare. Prendiamo decisioni troppo veloci e in maniera sbagliata. Abbiamo l’illusione che tutto debba accadere immediatamente. Non è così. I social media sono un modo meraviglioso per connettere le persone, ma bisogna rallentare tutto».

La protagonista a un certo punto dice: “Sbrigatevi, siamo ancora in tempo, ma dobbiamo sbrigarci”. Siamo ancora in tempo, dopo la brexit?
«La brexit è un esempio di ciò che abbiamo appena detto. Dopo nove giorni dobbiamo già capire ciò che significa. Il romanzo come genere letterario può essere più potente del giornalismo. Uno scrittore può riflettere. Sono rimasto molto choccato dalla decisione degli inglesi, sto cercando di capire».

Alla vigilia della brexit, lei temeva soluzioni che facessero appello alle emozioni anziché alla ragione. L’esito ha confermato questa paura?
«È stata una scelta non della ragione, ma delle emozioni, cioè degli impulsi che agiscono a livello di “pancia”. L’identità nazionale è una questione che le persone sentono in maniera emotiva, è stato un grande errore ridurla a un sì o a un no. È difficile capire cosa accadrà, ci sono diversi modi di viverla: o in maniera completa o con compromessi. Sembra un gran finale, ma in realtà è solo l’inizio di qualcosa di molto oscuro e complicato. È un momento di grande incertezza».

L’amarezza per la piega che da qualche tempo ha preso la sua Inghilterra e la nostalgia per una stagione segnata da una maggiore innocenza. Dopo la brexit l’amarezza è ancor più cresciuta e cosa è restato della nostalgia?
«Quando c’è insicurezza, le persone guardano al passato per essere rassicurati. Qualsiasi nostalgia politica, o di destra o di sinistra, è sbagliata. Il raccontoo Il giardino di cristallo è incentrato sulla nostalgia. La fontana è la forma dei ricordi del passato. Anch’io sono molto nostalgico dei momenti politici passati: gli anni Settanta, che hanno preceduto le profonde e laceranti trasformazioni della Thatcher. Forse però idealizzo questo momento, forse la mia è una falsa memoria. Le circostanze sono cambiate, bisogna vivere nel presente».
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