Se la fiera del libro dimentica i lettori: non decolla il salone milanese

Se la fiera del libro dimentica i lettori: non decolla il salone milanese
di Giuseppe Scaraffia
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Martedì 25 Aprile 2017, 00:06 - Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 19:00
Trecentomila sono i visitatori della Buchmesse, la Fiera internazionale del libro di Francoforte, 160.000 quelli del Salon du Livre di Parigi.  E a Tempo di Libri, il nuovo salone del libro appena chiuso a Milano? «Avevamo dichiarato che ci aspettavamo da 70 a 80 mila visitatori. Non sappiamo se raggiungeremo i 70 mila», ammette con qualche malinconia la presidentessa della Fabbrica del Libro, Renata Gorgani. Più serafico Federico Motta, il presidente dell’AIE, l’Associazione Italiana Editori, tra gli enti promotori della manifestazione: «Non abbiamo mai fatto la corsa su Torino» dichiara «e semmai il confronto andrebbe fatto con la prima edizione del Salone», quella del 1988. Su Facebook il simpatico Piersandro Pallavicini taglia corto: «A Tempo di Libri non c’era una mazza di nessuno, due mie presentazioni davanti a un totale di dodici persone, però niente coda nei bagni, bar comodissimi, tanti cari amici da salutare».

Qualcuno lamenta, a Milano, la mancata presenza di quelle care scolaresche che travolgono da anni il Salone del Libro di Torino ridendo, scherzando e vociando, senza degnare di un’occhiata i volumi esposti. Tenera carne da cannone, leggi da statistiche.La direttrice del nuovo salone milanese, Chiara Valerio, una valente matematica, è una giovane romanziera ed è piena di risorse. Come del resto Nicola Lagioia, brillante nuovo direttore dell’imminente Salone di Torino. Forse c’è stato poco tempo per Tempo di Libri, che è stato preparato in soli 225 giorni. Sufficienti però a scegliere una sede scomoda e lontana dalla città e a proporre un calendario di incontri che brilla per mancanza di novità. Come mai? Colpisce, in un momento di autentica e pervicace crisi editoriale, la riottosità a proporre reali innovazioni, a parte il colore della moquette e la qualità della sala stampa e del suo catering, decisamente migliori di quelli finora offerti a Torino. Colpisce, in un “nuovo” salone del libro, la prevedibilità dei rituali e dei nomi prescelti. Hanno in questo il loro peso, forse, anche i premi letterari, che da un numero di anni che è meglio non calcolare premiano inesorabilmente gli esponenti della stessa troupe de théâtre. Autori che dovendo occuparsi di cose concrete come scalare le colonne dei giornali, le torri d’avorio delle case editrici e talvolta i contrafforti di incarichi privati e pubblici non hanno purtroppo il tempo di dedicarsi con calma a quella frivola impresa che è lo scrivere. Tanto lo script è sempre lo stesso: una scrittura ombelicale piena di buoni sentimenti. E se tanto per cambiare si fa i cattivi, si strizzano più occhi del gigante Argo alla morale corrente. 

CORSE
Ci sono poi le corse solitarie che quest’anno si riflettono – positivamente? – negli specchi dei saloni, come quella di Walter Siti che col suo ambiguo libro sulla pedofilia si sta autocandidando alla successione a Pasolini.Al di là di quelle che l’altrettanto sacro Moravia avrebbe chiamato le Ambizioni Sbagliate, ci si chiede perché infliggere una fiera del libro a una città come Milano, che per tutto l’anno almeno virtualmente crivellata di eventi e incontri culturali che nel mondo reale però molto spesso producono soltanto sale semivuote. Non importa: nella narrazione mediatica Milano è una città spumeggiante di cultura. Ma come mai questa esuberanza non si traduce in un aumento o per lo meno in un arresto della caduta delle vendite dei libri? Un mistero poco interessante per i bulimici organizzatori di incontri.  

LA RETE
Forse bisognerebbe riconoscere che la Rete ha insidiato il già ristretto numero di lettori italiani? Ma allora perché in Francia i lettori sono aumentati? Forse lo scacco in Italia è dovuto a una politica culturale inesorabilmente clientelare, ansiosa soprattutto di mantenere le proprie posizioni di potere. Anche in Francia, in Germania, diciamo in tutto il mondo la cultura è saldamente in mano alla sinistra. Il che forse dimostra che non è una questione di parte politica o di potere politico, ma di cultura, appunto, del potere — cosa molto diversa. Forse fuori dall’Italia le maglie del cosiddetto potere culturale sono meno strette, forse chi non si uniforma passivamente, pigramente, senza fantasia, non viene inesorabilmente considerato un nemico. 

SORPRESE
E’ forse questo a produrre l’assoluta mancanza di sorprese che si diceva. Non quelle finte, naturalmente, che vengono inanellate una dopo l’altra: ecco il finto scandalo, la finta anticonformista, il finto — ma in realtà quanto reale! — cinico. Perché sorprendersi se pochi sentono il bisogno di visitare fiere e saloni che espongono la stessa opaca materia smerciata tutto l’anno da giornali e televisioni? Ma a organizzatori, scrittori e premiatori sembra importare poco di quei potenziali consumatori di cultura che dopo avere trovato illeggibile un libro uniformemente lodato abbandonano la lettura pensando di non essere in grado di capirla. Certo sarebbe eccessivo e perfino ottimistico — presupporrebbe una ratio — ridurre le fiere del libro a fiere delle vanità e dei favori. Altrettanto certo che se ci si divertisse a verificare quante volte ricorrono gli stessi nomi tra presentatori e presentati e viceversa, e a contarne i turni, il risultato potrebbe essere esilarante.
Si sussurra che il Salone di Torino somiglierà in modo incantevole al neonato di Milano, che a sua volta assomigliava come una goccia a quello di Torino. Non possiamo ancora esserne sicuri. Ma di sicuro i due giovani direttori sembrano conoscere molto bene le regole dell’establishment culturale italiano. Nel Gattopardo si diceva: «Bisogna che tutto cambi perché niente cambi». Solo che qui si salta decisamente la prima fase.
 
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