Da Mina a Battisti, quando l’assenza si trasforma in mito

Da Mina a Battisti, quando l’assenza si trasforma in mito
di Malcom Pagani
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Giovedì 23 Marzo 2017, 00:29 - Ultimo aggiornamento: 27 Marzo, 18:18
L’essenziale è invisibile agli occhi e l’età anagrafica, in certi casi, niente più che una convenzione. Mina compie 77 anni dopodomani e nonostante l’attitudine eremitica e la quarantennale distanza dalle scene, pulsa nei ricordi più di quanto mai potranno i mesti epigoni che si affannano ad apparire nell’errata convinzione che occupare uno spazio fisico equivalga a incidere nell’immaginario collettivo. Come un Ettore Maiorana senza mistero, Mina è scomparsa. Si è sottratta alla vista. Non si è concessa.
 
 


Ha lasciato che gli altri parlassero del suo privatomentre lei, afona per tutto ciò che non riguardava l’arte sua, taceva. E’ emigrata verso la Svizzera verde trascinandoconsé tutti i colori e destinando ai curiosi e ai malevoli, soltanto unarcobalenodi ipotesisul tavolo.È triste, è depressa, è ingrassata, è dimagrita, teme le imboscate e i fotografi,nonregge la pressione.Tutti sicuri, tutti con l’ultimanotizia di giornata in mano.Tutti in errore.
 
IL SEGRETO DI MINA
Mina desiderava tornare a essere libera e gli altri, il vasto mondo che l’amava, non capiva e non si sforzava di considerare che la figlia di un piccolo imprenditore lombardo, una che da ragazza, a Giorgio Bocca, diceva spavalda: «Non ho mai letto un libro» si fosse poi chinata sulla lezione di Kavafis scongiurando con la poesia dell’assenza, la possibilità che la vita, se sciupata nel gioco balordo degli incontri e degli inviti, diventasse alla fine una stucchevole estranea. Per allontanare il pericolo, Mina si è estraniata, è passata di profilo dietro una quinta di Camaiore nel 1978, ha visto di sguincio seimila persone seguirla con gli occhi ed è andata altrove. Trasformandosi insieme al suo ricordo. Diventando un’entità astratta. Si è eclissata, Mina, fino a sfiorare il segreto dell’immortalità. Si resta oltre se stessi solo se nel momento del congedo, proprio come accadeva al protagonista di “Una cena elegante” di Robert Walser, gli astanti sono ancora lì a interrogarsi sull’identità di chi ha appena abbandonato la sala. Chi fosse davvero Mina all’epoca delle Milleluci, qualcuno aveva provato a raccontarlo. L’aveva incontrata nel 1963 Oriana Fallaci per chiederle se davvero avesse paura del successo e lei, la Tigre, aveva ruggito con semplicità: «Il fatto è che non l’ho mai cercato, il successo. Non ho lottato per conquistarlo e quindi non l’ho mai apprezzato. A una certa età, così come all’uomo viene la barba, a me è arrivato il successo. Me lo sono tenuto come un regalo di cui si ignora il prezzo e se lo perdevo,mi dicevo, pace».

BATTISTI E LA BRIANZA
Non pensava a un esito preciso neanche Lucio Battisti che scelse proprio l’attuale domicilio di Mina, la tv del Canton Ticino, per donarsi un’ultima volta in pubblico, con tanto di camicia a righe, in un’esibizione datata 1982. L’esito arrivò, Battisti si difese a suo modo dall’invadenza altrui e ancora oggi vede difesa la sua immagine dalla moglie Maria Grazia Letizia Veronese. Del successo, il reatino non comprendeva i riverberi sulla vita quotidiana. Gli scatti rubati, l’assillo degli autografi, la naturalezza impossibile nel rapporto tra mito e adepto. Cercò e volle l’oblìo, al centro della Brianza “velenosa” già messa in note e versi, ruppe con i vecchi amici e si chiuse in se stesso cambiando pelle, anche artistica. Scelta simile per certi versi- se non altro per vicinanza geografica- a un altro asceta- pur a mezzo servizio- come Adriano Celentano.

GLI OROLOGI DI ADRIANO
Amico fraterno di Mina, Adriano provò a riportarla invano sugli schermi Rai a fine 2016, a decenni dalle meraviglie messe in scena con Antonello Falqui. Missione fallita perché una differenza esiste e Celentano all’assenza, ha sempre preferito una centellinatissima e remunerata presenza. Nelle tante pause, più che mostrarsi, Celentano preferisce spendere il proprio tempo mandando lunghi articoli ai giornali o impegnandosi a luce fioca sulla vecchia mania giovanile degli orologi. La via Gluck non torna più e il tempo passa, ma il ticchettìo delle lancette e lo scorrere delle stagioni hanno destato indifferenza negli artisti che della curiosità morbosa del pubblico, in un’epoca di morti di “fama”, seppero fare tranquillamente a meno. Da Gino De Dominicis (così riottoso a mostrarsi e così randagio durante tutto l’arco della sua esistenza, da far dubitare, in stile Elvis Presley, persino sul suo trapasso) a Jerome D. Salinger. L’autore de Il giovane Holden, difendeva la privacy agitando il fucile contro i disturbatori (ma a differenza di Mina, lontana dai riflettori, ma sempre presente in voce), come notò acutamente Tommaso Pincio, era volato via non nel giorno ufficiale della dipartita, nel gennaio del 2010, ma almeno tre decenni prima, all’epoca del suo ultimo articolo per il New Yorker nel 1965.

FERRANTE? NO, RAJA
In un’epoca di scrittori sotto falso nome, ben dopo Romain Gary, abbiamo visto trionfare Elena Ferrante. Interrogandoci su chi fosse prima di scoprire, con tanto di visura camerale, che Ferrante era un’altra persona, aveva un domicilio fisico e non fluttuava soltanto nelle nostre fantasie. Anita Raja, dunque. Un finale realista che mal si concilia con le favole e con il sogno e che strappando il sipario, lascia i lettori malinconici come bambini a cui abbiano appena rivelato che Babbo Natale è solo un’invenzione o peggio, un’illusione. 
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