Piero Angela: «Così provai ad andare sulla Luna»

Piero Angela: «Così provai ad andare sulla Luna»
di Katia Ippaso
7 Minuti di Lettura
Domenica 19 Novembre 2017, 00:21 - Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 22:41
Forse l’unico posto in cui non è stato è la Luna, ma non si può dire che non ci abbia provato: «Quando avevo seguito in America le missioni 7,8,9, 10, 11 e 12 dell’Apollo, a un certo punto ho incontrato colui che stava progettando lo shuttle e mi sono fatto iscrivere per salirci anche io. Volevo essere il primo giornalista a mettere piede sulla luna». Per ogni capitolo della sua intensa vita, Piero Angela, 89 anni a dicembre, ha collezionato immagini nette seguite da spiegazioni logiche, che poi sono andate a nutrire una carriera “stellare” di giornalista e divulgatore scientifico, 38 libri alle spalle e un bel po’ di lavoro ancora da fare.
«Uscire di scena adesso? Mai. Nel 2018 devo preparare le nuove puntate di Superquark». Si potrebbe dire di lui che è l’ultimo degli illuministi. Il primo atto di quest’amore per la dea Ragione si colloca nell’infanzia, quando a Torino il padre, che era un medico, gli regalò l’Enciclopedia dei ragazzi. «Divorai subito il terzo volume, quello dei Perché». 
Da quel momento non ha più smesso di indagare tutto l’indagabile: il corpo umano, la mente, il cosmo, la natura. Seduto nel salotto della sua casa romana, il volto illuminato da una lampada di stoffa chiara, Angela parla del mondo che ha conosciuto come ne può parlare un ragazzo che, per andare a esplorare un altro pezzo di universo, è pronto a fare anche l’autostop. 

Nel finale del suo ultimo libro, Piero Angela, “Il mio lungo viaggio” (Mondadori), lei fa una previsione sul mondo come sarà tra 100 mila anni: «Mi dà l’idea di un posto freddo, dove non ci sarà niente da scoprire». Dice anche che è stato bello vivere nel Novecento.
«Mi auguro che non sarà così, in fondo vorrei esserci anche io nel futuro! Di certo ho vissuto nel periodo più bello della storia: sarà stato anche pieno di problemi, ma è stato un secolo ricco di scoperte e di umanità».

Ma anche di guerre, orrori e ingiustizie.
«Io ho viaggiato soprattutto negli anni ‘50 e ‘60. C’erano zone del mondo in cui si finiva nel Medioevo, o addirittura nella preistoria. Quando ti muovi, ti rendi conto di quello che siamo stati anche noi. Mio padre era un contemporaneo di Garibaldi e quando è nato lui non c’era la luce elettrica. Nell’arco di una generazione si è passati dalla lampada a petrolio alle stazioni spaziali. Noi siamo stati fortunati, mi creda».

Come festeggerà i 90 anni, il 22 dicembre del 2018?
«Norberto Bobbio al suo novantesimo compleanno disse: “Alla fine rimangono gli affetti che uno ha intorno». Ecco, a me viene di dire la stessa cosa. Lo festeggerò con la mia famiglia».

Quando incontrò sua moglie?
«Ho incontrato Margherita negli anni ‘50 a Torino, siamo molto uniti e siamo entrambi riservati. Abbiamo due figli, Alberto e Christine, e 5 nipoti».

Suo figlio Alberto fa il suo stesso mestiere. All’inizio, la cosa non piacque a tutti
«Una volta mia moglie si è trovata un pipistrello nel frigorifero: ce l’aveva messo Alberto. Questo per dire che era un bambino orientato a studiare la natura. Prima di cominciare a collaborare con me, faceva già il mio stesso mestiere alla tv svizzera. Sono stato più io a sfruttare le sue conoscenze di paletnologo che lui a sfruttare me».

Gioca ancora a scacchi?
«Sempre di meno, ma lo consiglio a tutti. Per giocare bene agli scacchi bisogna posizionare i propri pezzi nel modo giusto e saper rinunciare a qualcosa. Non bisogna mangiare subito un pezzo per avere un vantaggio immediato».

E lei a cosa ha rinunciato nella sua vita?
«A nulla. Ho seguito la strada che mi portava a fare il lavoro che mi piaceva».

All’inizio studiò da ingegnere
«Ero appena nato e i miei genitori mi vedevano già come ingegnere. Ma la mia vera passione era il pianoforte. Ogni tanto ci troviamo ancora con qualche vecchio jazzista e facciamo delle jam session».

Il suo jazzista-mito?
«Oscar Peterson. E’ stato il più grande pianista di jazz di tutti i tempi». 

18 marzo 1981: la partenza di Quark. Chi c’era accanto a lei?
«La cosa che mi emoziona di più è pensare che da allora i miei collaboratori sono ancora gli stessi: Lorenzo Pinna, Marco Visalberghi e Giangi Poli. Nel tempo ne sono arrivati altri. Ma, con il regista Gabriele Cipolliti, il nucleo storico è quello. Vorrà dire qualcosa, no?». 

Non si arrabbia mai?
«Lavoro con la stessa redazione da quasi 40 anni e non ho alzato la voce una volta». 

Qualche difetto ce l’avrà
«Mia moglie dice che sono distratto». 

È stato mai tentato dal pensiero di Dio? 
«Non mi sono mai dichiarato né ateo né agnostico né credente. Io la penso come la penso. Sono un uomo di scienza e non mi posso esprimere riguardo a Dio». 

La parola “pensione” per lei non esiste, vero?
«Solo adesso sono riuscito a far partire, con il Politecnico di Torino, un progetto che avevo in mente da tempo. Si chiama “Costruire il futuro” ed è rivolto a 400 studenti tra liceali e universitari: 15 conferenze per raccontare il mondo che verrà attraverso la voce di scienziati, sociologi, demografi, giuristi…».

In questi 90 anni, quale è stato l’incontro più forte?
«Ogni uomo è un mondo da esplorare e si impara da tutti, dagli scienziati come dalle persone semplici. Però bisogna essere veramente interessato alle persone. Io conosco un uomo di una intelligenza e di una qualità scientifica altissima, ma se ne frega degli altri. Li considera dei licheni».

La dote indispensabile di un giornalista?
«Mettersi nei panni degli altri».
 
Prima conduttore del Tg2, poi disse no alla direzione del Tg e di una rete Rai. Perché?
«Fu Letizia Moratti a offrirmela, e non ricordo quale delle tre mi offrì. Questo per dire che non ero interessato. Non avevo voglia di occuparmi di canzoni, telenovele, intrattenimento... A me piacciono solo i programmi culturali e i documentari».

Cosa vede in tv?
«Cosa non vedo in tv».

Cosa non vede allora
«Non vedo lo sport».

Non era tifoso della Juventus?
«Da torinese, lo sono per ragioni sentimentali ma se gioca male lo ammetto».

Cos’altro non vede?
«Non ho mai visto il Festival di Sanremo».

Ci pensi bene. Almeno una volta per sbaglio…
«Beh, in effetti una volta ci sono andato. Rita Levi Montalcini mi chiese di accompagnarla, però non eravamo lì per ascoltare le canzoni ma per raccogliere fondi destinati alla cura della sclerosi multipla».

Che cosa vi diceste con Berlusconi quel giorno che vi incontraste nel bagno di un ristorante milanese?
«Non glielo dico. Era l’anno in cui Berlusconi aveva appena comprato Tv Sorrisi e canzoni, il 1985. Mi disse cose delicate che riguardavano la Rai, e non ho mai capito perché».

L’unico personaggio che nel suo libro descrive come una figura intimidente è Federico Fellini. Che cosa dovevate fare insieme?
«Lo sa che non l’ho capito?»

Come non l’ha capito?
«Io avevo scritto il soggetto di un film sui rifugi nucleari prodotto da Cristaldi e diretto da Giuliano Montaldo, che fu un mezzo flop. Dopo qualche anno, Cristaldi ebbe l’idea di presentarmi Fellini che per me era un mito, ma lui fu scostante. In realtà eravamo molto diversi. Io avevo creato un comitato contro i fenomeni paranormali, Fellini era amico del “sensitivo” Rol, lo stesso che mi aveva “augurato” di morire di cancro in due mesi… poi ho vissuto altri 50 anni». 

Il filosofo Emanuele Severino, anche lui alla soglia dei 90, sulla morte ha scritto: “La legna sta bruciando… Le forme scure del legno si fanno incandescenti, la fiamma si riduce e i tizzoni diventano braci. Queste, infine, diventano cenere”. Lei come se la immagina la fine della vita?
«Anche io la vedo un po’ così. Però è una scocciatura. Mia moglie dice che sulla mia tomba farà scrivere: “Con tutto quello che avevo da fare…”».

Tra il mondo terrestre, animale, marino, il corpo umano, lo spazio, tutto quello che lei ha voluto conoscere, quale rimane il più grande mistero?
«Le cose che non sappiamo. Misteri sono le cose che non abbiamo ancora scoperto». 
 
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