Rudolf Hoss, il discepolo del Male che viveva tra i fiori

Rudolf Hoss, il discepolo del Male che viveva tra i fiori
di Carlo Nordio
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Sabato 18 Novembre 2017, 00:22 - Ultimo aggiornamento: 19 Novembre, 21:37
La notte dell’11 marzo 1946 una squadra della Field Security Britannica fece irruzione in una cascina di Gottrupel, una località della Germania del nord ai confini con la Danimarca. Trovarono un contadino che dormiva tranquillamente nella stalla: prima che avesse il tempo di capire quanto accadeva, l’uomo vide la faccia severa del capitano Hanns Alexander, un ebreo tedesco fuggito in Gran Bretagna, e arruolatosi nelle forze speciali di Sua Maestà. L’ufficiale gli chiese il nome. La risposta fu: «Franz Lang». «No - rispose il capitano – la tua carta d’identità è falsa, tu ti chiami Rudolf Hoss. Mostrami la fede di matrimonio». Il prigioniero tergiversò, lamentandosi che l’anello era incastrato, e non riusciva a sfilarlo. «Nessun problema - replicò Alexander - basta tagliarti il dito». Ed estrasse la baionetta affilata. L’amputazione non fu necessaria, l’uomo consegno l’anello, e l’inglese lesse la dedica all’interno». Assestò al tedesco un paio di ceffoni e ripetè la domanda. L’uomo rispose «Sì, sono Rudolf Höss, già comandante di Auschwitz».

Alexander annuì soddisfatto. I componenti della sua squadra erano quasi tutti ebrei che avevano avuto vari parenti sterminati nei campi nazisti, e chiesero una piccola soddisfazione personale. Il capitano capì e concesse dieci minuti, raccomandò cautela e si allontanò a fumare. Quando tornò, Höss era stato coscienziosamente sottoposto a un “passage à tabac”, ma senza gravi conseguenze: non si lamentò nemmeno del trattamento, lo considerò inevitabile e anche giustificato. Fu portato a Norimberga, dove fu sentito come testimone, citato a difesa del capo della Gestapo e del SD, Ernest Kaltenbrunner. Fu un boomerang per la difesa. Höss descrisse con minuzia gli ordini ricevuti e la loro diligente esecuzione, concludendo cosi: «Stimo che ad Auschwitz siano state giustiziate e sterminate almeno due milioni e mezzo di vittime, gasandole e bruciandole, e che un altro mezzo milione di individui sia morto di fame e malattia, per un ammontare di circa tre milioni di decessi». I moderni negazionisti dovrebbero rifletterci sopra.Kaltenbrunner fu impiccato, e Höss fu estradato in Polonia dove, in un carcere vicino a Cracovia, scrisse un lungo memoriale. L’11 Marzo 1947 comparve come imputato davanti alla Corte criminale di Varsavia. L’atto di accusa era di novantotto pagine: i reati più gravi, lo sterminio di trecentomila prigionieri russi e polacchi, e di quattro milioni di ebrei.

L’ORRORE
Fu un processo diverso dagli altri analoghi. Norimberga aveva giudicato i massimi gerarchi, sempre prudentemente lontani dai luoghi dei massacri. A Dachau venivano portati alla sbarra medici, giudici e altri funzionari minori. Gli alleati in realtà miravano essenzialmente a punire gli assassini dei loro prigionieri: in Italia, mentre Kappler e Reder, sottoposti alla nostra giurisdizione sfuggivano alla forca, gli americani fucilavano il generale Dostler, che aveva firmato l’esecuzione di un gruppo di commando catturato in divisa. Con Höss la vicenda era diversa. Qui si sarebbe visto in carne ed ossa il comandante del campo di sterminio più grande che la Storia avesse mai conosciuto: Auschwitz Birkenau, dove l’infernale catena di montaggio aveva incenerito, nell’estate del 44, diecimila persone al giorno. Dall’arrivo dei treni dei deportati fino al recupero dei denti d’oro delle vittime, e alla loro cremazione, tutto avveniva sotto la direzione vigile ed efficiente di Rudolf Höss. 

Lui viveva accanto al perimetro del campo, con la moglie e tre bambini. Coltivavano piante e fiori, anche per mitigare l’acre odore che usciva dagli incombenti camini. Era un padre tenero, e, al netto di qualche infedeltà, un marito premuroso: le sue ultime lettere incoraggiano i futuri orfanelli a curarsi della madre, «perché l’amore e la cura della mamma è la cosa più bella del mondo», e a «conservare un cuore buono, guidati da affetto e umanità». Si stenta a credere che tanta delicatezza si esaurisse tra le mura domestiche, per trasformarsi in gelida indifferenza davanti alle lunghe file di morituri. Eppure Höss non era uno schizofrenico dissociato: come molti suoi colleghi era convinto di due cose: che gli ordini andassero eseguiti, e che i nemici del Reich andassero fisicamente eliminati. Se poi tra questi figuravano vecchi, donne e neonati, ciò faceva parte del piano: il nemico non era l’ebreo con le armi in pugno, e nemmeno quello «plutocratico e usuraio». Era proprio il giudeo in quanto tale, una “razza” da sradicare con una macchina perfetta. E la macchina funzionò. Nelle sue memorie Höss descrisse con ordine e metodo le procedure di accoglimento, smistamento, e selezione dei nuovi arrivi: i pochi adatti, spediti allo sfruttamento delle residue energie fino alla morte. Gli altri, la maggioranza, direttamente intruppati verso le camere a gas. Poi l’accumulo dei corpi, la raccolta dei capelli e dell’oro delle dentiere, e infine la cremazione: un lavoro eseguito da altri internati, che pagavano questa breve e temporanea sopravvivenza con l’anticipazione della sorte che di lì a poco anche loro avrebbero subito.

BUROCRATICO RESOCONTO
In queste memorie non c’è traccia né di compiacimento né di rimorso. Sono pagine straordinariamente anodìne, come il burocratico resoconto dei tempi e metodi di produzione industriale. Nei suoi interrogatori Hoss si disse consapevole della sua terribile opera, ed anche dispiaciuto di tanta morte. Il paradosso è che era sincero: personalmente non era un sadico, e a differenza di Mengele non gli piaceva veder morire. Nei rari film delle udienze, il suo volto non manifesta né il vergognoso rimorso di Hans Frank né lo sprezzante cinismo di Hermann Goering. È piuttosto pietrificato dalla rassegnazione: lui ammette di avere sbagliato, ma insiste di non aver avuto altra scelta.

La Corte fece quello che era giusto e prevedibile: lo condannò a morte per impiccagione. L’imputato ascoltò la sentenza con dignitosa compostezza: era un fanatico, non uno stupido, e sapeva perfettamente cosa lo aspettava. Non immaginava invece che il patibolo sarebbe stato eretto proprio ad Auschwitz, vicino al primo dei tanti forni che vi aveva fatto costruire. Il mattino del 16 Aprile 1947, davanti a un esiguo pubblico selezionato, Rudolf Höss salì sulla forca, e scambiò qualche parola con padre Tadeusz Zarembea, un prete locale di cui aveva chiesto la presenza. Mentre la botola si apriva, il sacerdote stava recitando una preghiera di perdono. Hanns Alexander, che lo aveva catturato, non perdonò né a lui né alla sua Patria di origine. Restituì la croce di ferro del padre, e si rifiutò di tornare in Germania anche per l’inaugurazione del museo di Bergen Belsen. «Non ho mai parlato della guerra con i miei bambini - disse - perché i bambini non devono esser cresciuti nell’odio. Ma io ne sono pieno». Visitando Auschwitz, se ne capisce il perché.
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