Alexander annuì soddisfatto. I componenti della sua squadra erano quasi tutti ebrei che avevano avuto vari parenti sterminati nei campi nazisti, e chiesero una piccola soddisfazione personale. Il capitano capì e concesse dieci minuti, raccomandò cautela e si allontanò a fumare. Quando tornò, Höss era stato coscienziosamente sottoposto a un “passage à tabac”, ma senza gravi conseguenze: non si lamentò nemmeno del trattamento, lo considerò inevitabile e anche giustificato. Fu portato a Norimberga, dove fu sentito come testimone, citato a difesa del capo della Gestapo e del SD, Ernest Kaltenbrunner. Fu un boomerang per la difesa. Höss descrisse con minuzia gli ordini ricevuti e la loro diligente esecuzione, concludendo cosi: «Stimo che ad Auschwitz siano state giustiziate e sterminate almeno due milioni e mezzo di vittime, gasandole e bruciandole, e che un altro mezzo milione di individui sia morto di fame e malattia, per un ammontare di circa tre milioni di decessi». I moderni negazionisti dovrebbero rifletterci sopra.Kaltenbrunner fu impiccato, e Höss fu estradato in Polonia dove, in un carcere vicino a Cracovia, scrisse un lungo memoriale. L’11 Marzo 1947 comparve come imputato davanti alla Corte criminale di Varsavia. L’atto di accusa era di novantotto pagine: i reati più gravi, lo sterminio di trecentomila prigionieri russi e polacchi, e di quattro milioni di ebrei.
L’ORRORE
Fu un processo diverso dagli altri analoghi. Norimberga aveva giudicato i massimi gerarchi, sempre prudentemente lontani dai luoghi dei massacri. A Dachau venivano portati alla sbarra medici, giudici e altri funzionari minori. Gli alleati in realtà miravano essenzialmente a punire gli assassini dei loro prigionieri: in Italia, mentre Kappler e Reder, sottoposti alla nostra giurisdizione sfuggivano alla forca, gli americani fucilavano il generale Dostler, che aveva firmato l’esecuzione di un gruppo di commando catturato in divisa. Con Höss la vicenda era diversa. Qui si sarebbe visto in carne ed ossa il comandante del campo di sterminio più grande che la Storia avesse mai conosciuto: Auschwitz Birkenau, dove l’infernale catena di montaggio aveva incenerito, nell’estate del 44, diecimila persone al giorno. Dall’arrivo dei treni dei deportati fino al recupero dei denti d’oro delle vittime, e alla loro cremazione, tutto avveniva sotto la direzione vigile ed efficiente di Rudolf Höss.
BUROCRATICO RESOCONTO
In queste memorie non c’è traccia né di compiacimento né di rimorso. Sono pagine straordinariamente anodìne, come il burocratico resoconto dei tempi e metodi di produzione industriale. Nei suoi interrogatori Hoss si disse consapevole della sua terribile opera, ed anche dispiaciuto di tanta morte. Il paradosso è che era sincero: personalmente non era un sadico, e a differenza di Mengele non gli piaceva veder morire. Nei rari film delle udienze, il suo volto non manifesta né il vergognoso rimorso di Hans Frank né lo sprezzante cinismo di Hermann Goering. È piuttosto pietrificato dalla rassegnazione: lui ammette di avere sbagliato, ma insiste di non aver avuto altra scelta.
La Corte fece quello che era giusto e prevedibile: lo condannò a morte per impiccagione. L’imputato ascoltò la sentenza con dignitosa compostezza: era un fanatico, non uno stupido, e sapeva perfettamente cosa lo aspettava. Non immaginava invece che il patibolo sarebbe stato eretto proprio ad Auschwitz, vicino al primo dei tanti forni che vi aveva fatto costruire. Il mattino del 16 Aprile 1947, davanti a un esiguo pubblico selezionato, Rudolf Höss salì sulla forca, e scambiò qualche parola con padre Tadeusz Zarembea, un prete locale di cui aveva chiesto la presenza. Mentre la botola si apriva, il sacerdote stava recitando una preghiera di perdono. Hanns Alexander, che lo aveva catturato, non perdonò né a lui né alla sua Patria di origine. Restituì la croce di ferro del padre, e si rifiutò di tornare in Germania anche per l’inaugurazione del museo di Bergen Belsen. «Non ho mai parlato della guerra con i miei bambini - disse - perché i bambini non devono esser cresciuti nell’odio. Ma io ne sono pieno». Visitando Auschwitz, se ne capisce il perché.
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