I RESTAURI
Un’indubbia attrazione è Salomé con la testa del Battista, di Michelangelo Merisi, eseguita a Napoli, probabilmente nel primo soggiorno. E proprio nella città flegrea, Filippo IV la rileva nel 1666, dalla collezione del viceré di Napoli Garcia de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo: è uno dei forse duemila dipinti che egli acquista. E’ bellissimo: lo aveva già voluto Roberto Longhi, nella sua famosa mostra su Caravaggio del 1951; e lo è più ancora adesso, che è stato appena restaurato: «Si legge finalmente il modo in cui il carnefice impugna la spada, e se ne scopre un nuovo sfondo verdastro», continua De Simoni. Il medesimo tema è dipinto inoltre da Fede Galizia, ed è esposto. Restaurata di fresco pure La tunica di Giuseppe di Diego Velázquez, dipinta dopo il primo viaggio in Italia del 1629; dopo il secondo (1649) diverrà uno dei grandi ritrattisti pontifici: lo dimostra, per citarne uno, l’Innocenzo X nella Galleria romana dei Doria Pamphilij.
LE CONTROVERSIE
Le opere illustrano l’attrazione reale per tutta la pittura italiana: dalla Vocazione dei Santi Andrea e Pietro di Federico Barocci, dono a Filippo II dell’ultimo duca di Urbino Francesco Maria II Della Rovere, fino a Lucrezia che si dà la morte di Carlo Maratta, buona parte della cui collezione Filippo V acquista dalla prima figlia Faustina. Nel mezzo, il grande amore per Gian Lorenzo Bernini. E ne vediamo un modello di due metri, in bronzo dorato, per la Fontana dei quattro fiumi di Piazza Navona; ma anche un Crocifisso in bronzo e legno alto quasi due metri. Quando i reali riallestivano gli appartamenti, chiedevano opere italiane: Filippo IV, nel vecchio palazzo di Madrid, crea il “Salon nuevo”; e a Guido Reni domanda Il ratto di Elena. Ma quando egli lo realizza, tempo dopo, lo manda ai Barberini a Roma, e il re iberico lo trova troppo caro e «poco appropriato»; poi, cambia idea, ma è tardi: il quadro è venduto in Francia, a Maria de’ Medici, ed è al Louvre. Realizza pure un’Immacolata, che fa parte della raccolta, con La conversione di Saulo. E sempre a inizio del Seicento, lavorano su richiesta del sovrano Domenichino e Artemisia Gentileschi. Nel 1638, il re vuole un ciclo su Roma antica nel Cason del Buen Retiro: 28 dei quadri sono al Prado.
Caravaggio si ritrova, a Madrid e nella mostra, accanto a due opere del suo grande nemico, Giovanni Baglione (lui, lo chiamava “Gian coglione”); a Reni, il cui Saulo sembra una risposta ai dipinti del lombardo nella Cappella Cesari di Santa Maria del Popolo; ai Carracci; a Mattia Preti (San Girolamo); a Luca Giordano (Ebbrezza di Noè); al San Tommaso di Guercino; e ad altri, più e meno noti al grande pubblico. L’eccezionale Cristo Crocefisso di Bernini «è l’unica sua statua commissionata all’estero che abbia raggiunto la destinazione», spiega il curatore. E Filippo V teneva nello studio dell’Alcazar una riproduzione della Fontana di Piazza Navona alta un metro e 70 cm, con alla sommità, ovviamente, le armi di Spagna al posto di quelle del pontefice.
Tra gli ultimi atti di questa strana “cavalcata seicentesca” nelle opere italiane, e spesso romane, volute nei palazzi reali di Madrid, arriva Carlo Maratta (o Maratti): il re ne fa comperare tutte quelle che restavano agli eredi, a nove anni dalla morte dell’artista; per essere esatti, 124 quadri, e pagati a caro prezzo. Sì, l’Italia che dipinge, per i re di Madrid, era davvero una grande passione; e noi, forse, non dovremmo stupircene poi troppo, nella gioia di vedere queste opere, tutte assieme, come finora non era mai avvenuto.
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