Valeria Bruni Tedeschi: «Io, a caccia di emozioni»

Valeria Bruni Tedeschi: «Io, a caccia di emozioni»
di Gloria Satta
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Giovedì 25 Agosto 2016, 00:06 - Ultimo aggiornamento: 27 Agosto, 19:40

Più che un’attrice, un concentrato di emozioni. Abbiamo ancora negli occhi, nella testa e nel cuore la sua splendida (e premiatissima) Beatrice, l’altolocata signora fuori di testa del film di Virzì La pazza gioia. Ora Valeria Bruni Tedeschi torna a soprenderci con un nuovo personaggio eccentrico, sofisticato, indimenticabile: l’aristocratica Isabelle Van Peteghem in Ma loute, il film di Bruno Dumont che, passato in concorso al Festival di Cannes, esce oggi in sala grazie a Movies Inspired, distribuzione votata al cinema di qualità.
Interpretato anche da altre due superstar francesi, Fabrice Luchini e Juliette Binoche, Ma loute racconta con toni surreali e grotteschi, sempre sopra le righe, lo “scontro di classe” che nel 1910 si consuma tra una famiglia di borghesi ricchi, fatui e decadenti e una rozza comunità di pescatori sulla scenografica costa atlantica francese dove avvengono misteriose sparizioni, “miracoli” inattesi, rivelazioni sconvolgenti.
Valeria racconta al Messaggero questo nuovo impegno, i suoi sogni, i progetti, a cominciare dal nuovo film da regista che come i precedenti avrà spunti autobiografici o quasi.

Cosa l’ha spinta a interpretare  Ma loute?
«Non scelgo mai un film in base al personaggio o alla sceneggiatura. Deve convincermi il regista. Da tempo ammiravo Dumont e la sua capacità di cambiare registro: questa volta ha inventato una musica nuova, che ho sentito subito mia».

E come si è regolata per interpretare Isabelle?
«Ho giocato sull’autorepressione, la frustrazione, la vergogna. Questo personaggio del secolo scorso, con guanti di pizzo anche alla spiaggia e ombrellino, è l’opposto della protagonista di La pazza gioia».
 
In che senso?
«Mentre Beatrice era libera e disinibita, Isabelle si trattiene: mi ha aiutato a rendere l’idea il busto strettissimo che indosso. Il Super Io, il meccanismo inconscio di autocensura che sul set di Virzì avevo mandato in vacanza, quando ho lavorato con Dumont si è ripresentato armato fino ai denti!».

Il film ridicolizza l’alta borghesia, la classe alla quale lei stessa appartiene...
«Ma va giù duro anche con i poveri, descritti addirittura come cannibali! È divertente per questo».

Eppure a Cannes ha diviso la stampa, lei cosa ha pensato?
«Sono stata contenta che suscitasse reazioni appassionate. È un film politicamente scorretto. Trovo che la ricerca ostinata della correttezza sia noiosissima e ispiri poco».

Quanto le somigliano i suoi ruoli ”a fior di pelle”?
«<È difficile individuare il confine tra la mia personalità e i miei personaggi. Grazie a un’alchimia misteriosa che somiglia a un effetto speciale, quando entro in un ruolo non esistono più due entità distinte ma solo il personaggio con la sua forza, la sua fragilità, la gioia, il dolore».

Cosa le ha lasciato l’esperienza di “La pazza gioia?”
«La voglia di tornare a lavorare con Virzì, innanzitutto. E una femminilità nuova, più libera e più allegra. Una vera fortuna: non sempre un film ha il potere di cambiarti la vita».

A che punto è il suo nuovo progetto da regista?
«Sto scrivendo la sceneggiatura, spero di essere sul set nel 2017. Del cast farà parte ancora una volta mia madre Marisa Bruni Tedeschi, che si è scoperta un eccezionale talento d’attrice a 70 anni».

Racconterà anche questa volta una storia autobiografica?
«Nella stessa misura dei miei film precedenti: un artista attinge alla vita vera ma poi reinventa tutto. Da questo punto di vista considero autobiografico in modo segreto, inaspettato, perfino l’adattamento di Tre sorelle di Checov che ho curato per la tv».

Condivide la lotta per la parità di genere che sta impegnando molte attrici, soprattutto in America?
«Trovo giusto rivendicare la stessa paga degli uomini, ma la battaglia per avere ruoli interessanti non mi riguarda e non mi appassiona».

Vive e lavora a Parigi da molti anni, ma si sente ancora italiana?
«Assolutamente. È italiana la mia formazione culturale, la lingua che parlo con i miei bambini Oumy e Noé e la necessità che ho di lavorare periodicamente nel mio Paese di origine».

Ha un sogno, Valeria?
«Vorrei tanto essere diretta da un regista italiano. Magari uno con cui non ho mai lavorato prima. Mi creda, ogni nuovo incontro cinematografico per me è come un innamoramento».
 
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