Sabino Cassese e il merito: «È una bella parola, la sinistra non la rinneghi»

L’ex giudice della Consulta: «Il principio va difeso, sta anche nella Costituzione»

Sabino Cassese e il merito: «È una bella parola, la sinistra non la rinneghi»
di Andrea Bulleri
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Martedì 9 Maggio 2023, 00:14 - Ultimo aggiornamento: 09:25

È «un principio difeso dalla nostra Carta». Ma per Sabino Cassese, costituzionalista, già giudice della Consulta e ministro della Funzione pubblica, “merito” è soprattutto «una bella parola». Troppo spesso dimenticata. Al punto che c’è chi, come Carlo Cottarelli, ha deciso di dire addio al Pd (e di dimettersi da senatore) anche perché nel nuovo manifesto dei valori dem non si parla mai di «opportunità», ma solo di «redistribuzione». 

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Professor Cassese, a sinistra si apre di nuovo la discussione sul “merito”: i progressisti hanno rinunciato a parlarne, come lamenta Cottarelli?

«Non so dirle se il merito sia scomparso dall’orizzonte dei progressisti. So invece dirle che nel corso della storia repubblicana italiana tende spesso a scomparire. E che, quando scompare, riappaiono il familismo, il clientelismo, il sistema delle spoglie, oppure il dominio del caso. Voglio dire che, se non si segue il criterio del merito, prevarrà il criterio del “io sistemo mio figlio”, oppure quello del “do il posto a chi mi è vicino e leale”, oppure quello del “faccio vincere chi sta dalla mia parte” o, infine, vince chi è più lesto a infilarsi nella porta semichiusa».

Come mai “merito” sembra essere diventata una brutta parola? È una scomparsa che riguarda solo la sinistra di casa nostra, o sta avvenendo anche negli altri Paesi?

«Proviamo a definire il merito.

Questo è valutazione della competenza, intesa come conoscenza ed esperienza, compiuta in modo aperto, cioè in modo che tutti possano concorrere; competitivo, cioè in modo che si possano compiere analisi comparative; indipendente, cioè senza favoritismi; da parte di esperti, cioè in modo che i competenti possano valutare la competenza di chi concorre; in modo trasparente, cioè con procedure che partano dalla determinazione di criteri noti a tutti e che si concludano con decisioni motivate. Solo così si possono dare i voti nelle scuole e nelle università, solo così si possono assumere persone nelle aziende e nelle amministrazioni, solo così si possono ottenere classi dirigenti capaci. Da quando gli illuministi francesi, ispirati alla tecnica di selezione dei mandarini cinesi, svilupparono l’idea del merito e da quando questa idea penetrò in Inghilterra, nei paesi sviluppati il merito è una “bella parola”».

Torniamo al presente: la scomparsa del “merito” tra le parole d’ordine dei progressisti è un fenomeno collegato allo spostamento a sinistra del Pd? Nel Manifesto Pd del 2008, era citato sei volte, oggi nessuna. 

«Critici del merito ve ne sono da più parti. Alcuni lo criticano perché distoglie l’attenzione dall’attività necessaria a consentire l’acquisizione di competenze per mettere tutti sullo stesso piede di partenza. Da questo punto di vista, la nostra Costituzione contiene principi fondamentali. All’articolo 34 premia i capaci e meritevoli e all’articolo 3, secondo comma, stabilisce che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’uguaglianza dei cittadini. Una disposizione luminosa che fu suggerita da Massimo Severo Giannini a Lelio Basso, che faceva parte dell’assemblea costituente. Poi ci sono le critiche degli egualitaristi estremi, che però non sanno poi spiegare come evitare di affidarsi a valutazioni soggettive e di fare trattamenti diseguali. E così, alla fine, rischiano di finire anche loro per favorire il proprio portiere, o il proprio figlio...». 

Anche il cambio di nome del ministero della Scuola in “istruzione e merito” a suo tempo sollevò un bel vespaio. Come mai? 

«Una polemica infondata, sbagliata. Se un governo inserisce un principio importante, scritto anche in Costituzione, nella denominazione di un dicastero, perché prendersela? Tanto più che ad arrabbiarsi furono quelli che più spesso si richiamano alla difesa della Carta». 

Luciano Violante ha osservato su questo giornale che la sinistra dovrebbe concentrarsi anche sui doveri, oltre che sui diritti. Si è tralasciato questo aspetto?

«Concordo con quella valutazione, tanto che ho scritto pochi anni fa un libro che ha per sottotitolo “L’età dei doveri”». 

L’idea del reddito di cittadinanza, o di un reddito universale, è una conseguenza di questo spostamento di attenzione?

«Non credo, perché forme di sostegno delle persone con minori redditi fanno parte di quella rimozione degli ostacoli di carattere economico e sociale che limitano di fatto la eguaglianza. Lo prevede l’articolo 3 della Costituzione». 

C’è chi ritiene che a scuola il merito rappresenti una sorta di “ricatto per i poveri”, perché a esso sono condizionate le borse di studio. Che ne pensa? Garantire l’uguaglianza dei punti di partenza non basta più?

«Il problema non è soltanto quello di mettere tutti sulla stessa linea di partenza, ma è anche quello di consentire a tutti di arrivarci. Si ritorna, quindi, al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, cioè all’uguaglianza in senso sostanziale». 

Lo spostamento a sinistra del Pd rischia di lasciare un vuoto al centro? Chi può candidarsi a colmarlo?

«La politica italiana, come quella di altri paesi, è caratterizzata da cicli diversi, alcuni centripeti, altri centrifughi. Oggi, ci troviamo in questa seconda fase, di “fuga” dal centro. A destra come a sinistra». 

Che consiglio darebbe a Schlein? E a Meloni?

«Mai dare consigli, senza esserne richiesti».

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