Il futuro della Siria, il dopo Assad condiziona la guerra al Califfato

di Fabio Nicolucci
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Giovedì 26 Novembre 2015, 00:02 - Ultimo aggiornamento: 00:04
Mentre l’attenzione internazionale è concentrata sulle mappe militari del confine turco-siriano, se si allarga lo sguardo su una porzione più ampia della mappa del Levante, ci si rende conto anche visivamente della centralità della questione Bashar al-Asad nella complessa guerra in corso. Quando scoppiò la guerra in Siria, più di tre anni fa, il paese fu definito la “chiave di volta” della complessa transizione nella quale era entrata la regione con il crollo dello status quo seguito alle cosiddette “primavere arabe”. Da sempre la Siria è stata ritenuta il paese senza il cui consenso non si poteva fare la pace nel conflitto arabo-israeliano, allora centrale nella politica mediorientale, e tale cruciale funzione politica conservava anche nella nuova fase.

Una funzione che detiene ancora oggi, nonostante il suo territorio si sia rimpicciolito e sia squarciato da una guerra civile che, non a caso, ha acquisito una preponderante dimensione regionale. Pur rimpicciolito, infatti, il territorio in mano ad al-Asad è ciò che impedisce lo sbocco a mare dell’Isis. Con ciò “proteggendo” anche il Libano. Del resto questa prospettiva costituirebbe un cambio di scala probabilmente insopportabile a troppi, perfino nel cinico Levante. Come spesso accade, dunque, anche in questo caso la rilevanza strategica non dipende dalla profondità territoriale.



Per questo il destino di al-Asad è l’inevitabile nodo con cui si confrontano tutti coloro che partecipano alla guerra del Levante. Sia coloro che vi sono parte attiva come “decostruttori” dell’ordine precedente, in primis tutti gli attori regionali coinvolti - Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Emirati, Iran - sia coloro che vi intervengono per cercare di rimediare ai rischi connessi con tale cambiamento, in primis gli Usa, la Russia e le potenze occidentali. Una questione rimasta irrisolta sin dal 2011.



Le ragioni di questa irrisolutezza sono da rinvenire nella mancanza di analisi realistiche da parte delle maggiori potenze su quello che stava succedendo in Medioriente nella primavera del 2011. L’occidente, come spesso gli è accaduto - per esempio con il progetto di esportazione di una democrazia liberaldemocratica nel tribale e settario Iraq nel 2003 - aveva proiettato i suoi desideri e visioni sui fatti di piazza Tahrir, immaginando un Medioriente e una Siria fatti solo di giovani cosmopoliti, laici, liberali, e connessi alla grande piattaforma democratica di Internet. Al contrario, Bashar al-Asad ritenne di trovarsi di nuovo davanti alla ripetizione della sollevazione della Fratellanza Mussulmana, che il padre Hafez schiacciò e seppellì con i carrarmati ad Hama nel 1982, letteralmente seppellendovi 20mila persone.



Subendo il carisma del padre, anche perché capitato al potere per caso - Hafez, prima di morire per una lunga malattia nel 2000 aveva designato suo fratello maggiore Basil, che però morì in un incidente stradale nel 1994, e solo dopo indicò come seconda scelta Bashar che studiava oftalmologia a Londra - Bashar volle dimostrare che l’esser privo di esperienza politica non lo rendeva meno degno di succedere allo spietato ma carismatico padre. Il suo capolavoro politico fu non tanto la decisione di resistere, che ha schiantato la Siria e distrutto un intero popolo insieme alla sua identità storica, ma piuttosto il fatto che di ciò riuscì a convincere l’Iran. Che da allora gli siede al fianco in tutto e per tutto.



Con il senno del poi, occorre mestamente ammettere che l’analisi più realistica di possibilità e mezzi fu, tra le opposte visioni e illusioni degli Usa e di Bashar, quella del jihadismo. L’unico attore che ha calibrato con esattezza mezzi militari e progetto politico. Non a caso, sebbene la rivolta in Siria fosse scoppiata nel marzo del 2011 nel profondo est rurale di Dera’a per motivi economici, e poi la sua guida fosse subito presa da esponenti del regime catalogabili come liberaldemocratici, agli islamisti radicali bastò solo qualche mese per scipparla a tutti, come purtroppo il nostro Domenico Quirico testò sulla sua pelle.



Da allora, gli Usa e Bashar sono fermi a quel punto. Mentre il Jihad dell’Isis progredisce senza particolari scossoni. Ancora oggi infatti, su 16 operazioni militari congiunte dell’intera opposizione siriana negli ultimi due mesi, 15 hanno avuto come obiettivo il regime e solo una esclusivamente l’Isis. Due giorni fa la battaglia dei cieli tra Turchia e Russia ha costretto tutti a guardare il vero orizzonte. Cosa fare di Bashar al-Asad? Solo trovando il consenso su questo punto si potrà iniziare a far finire la guerra.