LE POSIZIONI
Perfino le tre mozioni dei candidati alle primarie del Pd si dividono su come e dove andare in piazza. Renziani anti-Anpi, e infatti non solo il presidente del partito ma anche Maria Elena Boschi disertano il corteo ufficiale e la sottosegretaria a Palazzo Chigi sarà con la comunità ebraica alla manifestazione di via Balbo che è polemicissima con quella di Porta San Paolo dei partigiani (ma ormai di partigiani non ce ne sono più, sostituiti biologicamente da agit-prop). Mentre Emiliano e Orlando non scaricherebbero mai le celebrazioni ufficiali, anche perché il Pd che deve far pagare all'Anpi l'ostilità manifestata durante il referendum costituzionale del 4 dicembre è quello identificato con Renzi.
E ancora, tra gli esponenti del ceto politico e culturale c'è chi va sia al raduno della comunità ebraica sia a quello della sinistra di sempre. Chi lì ma non qui. Chi qui ma non lì. Chi, come i grillini, né-né, ossia disertano tutto, ma la sindaca Raggi che invece si sdoppia e si rende ubiqua: un salto dai partigiani (e dai filo-palestinesi) e un salto dagli ebrei che stanchi di essere sempre contestati o malmenati in queste occasioni anche stavolta celebrano in proprio tra mille polemiche. E a Milano, il sindaco democrat Sala con quali dei manifestanti condividerà la giornata? Non con l'Anpi, di cui parla come un «elemento di divisione e non di unione». E Berlusconi che prima voleva abolire il 25 aprile e poi lo usò per celebrarsi come padre della patria nel famoso discorso del 2009 a Onna, il paese terremotato d'Abruzzo? Non pervenuto. Ma Brunetta annuncia che lui andrà davanti alla sede di quella che fu la Brigata ebraica a Roma, al tempo della lotta contro i nazifascisti. Mente il presidente laziale Zingaretti sarà a Porta San Paolo con i partigiani e poi alle Fosse Ardeatine, mentre il suo vice Smeriglio sarà sia con l'Anpi sia con i suoi contestatori a via Balbo.
LE DIVISIONI
Queste e tutte le altre divisioni su una data importante del calendario civile italiano, ma diventata ormai oggetto di usura e contaminata dalla ripetitività e dalla stanchezza, potrebbero far pensare che è cosi vivo il ricordo delle vicende della Liberazione e così ancora aperta la guerra delle memorie non conciliate, che è impossibile pacificarsi e ritrovarsi tutti insieme. E invece, il 25 aprile sembra più che altro un alibi per riproporre, su uno scenario che si presume nobile, contrasti e ripicche da politica andante e da spirito settario. Da strapaese e non da Paese che dovrebbe trattare una festività di questo tipo con la serietà che essa merita e con la consapevolezza del dramma trascorso.
Si tende insomma, e non da oggi, a far somigliare il 25 aprile a quelle processioni di paese in cui si litiga per chi porta il carro, su dove passare e davanti a chi bisogna inchinarsi. Si può giocare con il 25 aprile - questa la verità sottaciuta ma evidente - perché c'è la consapevolezza ormai che la festa è svuotata. Che quindi può essere riempita con tutto e perfino con il richiamo ad Hamas o ad Hezbollah o con le battute di Salvini («Non c'è nulla da festeggiare il 25 aprile, quando è in corso in Italia un'altra invasione gravissima, quella degli immigrati»). Il fatto è che si può trattare così questa festa perché si è notevolmente affievolita la forza e il suo richiamo presso gli italiani. Presi da altre urgenze, e non più sensibili alla potenza propagandistica di certa sinistra ideologica, ma soprattutto stanchi di rituali stanchi. E magari vogliosi si smettere di celebrare e di cominciare a capire che cosa è stata la nostra storia. Il che è impossibile, a causa di tutto il chiasso che viene prodotto ogni volta.