Se uccidere senza ragione diventa un gioco diffuso

di Aldo Masullo
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Martedì 28 Marzo 2017, 00:27 - Ultimo aggiornamento: 00:28
Uccidere un essere umano non è più soltanto un rituale religioso come in tempi antichissimi, o un atto di guerra come da sempre è avvenuto, o una mossa di ordinaria criminalità, o infine l’espressione compulsiva di una perversione sadica, il gesto del «tueur sans gage» proposto dal teatro di Jonesco. In questo nostro sfrenatissimo tempo uccidere sta diventando un vero e proprio sport, praticato da singoli e da gruppi. Certo vi sono stati nella cultura del Novecento anche stravaganti intellettualismi letterari in cui si è immaginato, ma quasi mai realizzato, di uccidere senza movente un qualsiasi malcapitato. 

Però oggi, a quanto si legge nelle cronache quotidiane, sembra che uccidere senza ragione stia diventando un gioco diffuso. Frequenti sono gli assassinii per motivi più o meno futili, soprattutto per insofferenza verso il sentire o il pensare di altri, il che segnala una sempre minore valutazione della vita. Ma quel che più oggi colpisce nei comportamenti degli individui è, mascherato dalla futilità dell’insofferenza, il subdolo agguato di una violenza bruta, bramosa di esplodere per soddisfarsi con la distruzione di un altro essere umano, chiunque egli sia. È come un uragano che, nel bel mezzo di una giornata tranquilla, d’improvviso irrompe, devasta e si dissolve, misteriosa divinità che esige il tributo di sangue e, sazia, ridiventa invisibile. 

Questa volta ad Alatri, nella Ciociaria buongustaia e paciosa (almeno in un tempo che fu), un mite ventenne, all’uscita da una discoteca, soltanto per aver protestato contro gli insulti alla sua ragazza è stato ridotto in poltiglia da un branco di assatanati, probabilmente imbottiti di alcool e di droga, in cerca dell’ultimo decisivo piacere, il più forte, prima di andare a dormire.
In questi casi tutto avviene come se d’improvviso si desse l’attesa occasione di una fulminea partita di caccia, in cui la preda non serve ad altro che a morire sotto gli occhi torbidi dei cacciatori. Si tratta di una caccia non sportiva, ma semplicemente criminale e tuttavia praticata come uno sport, per puro divertimento. 

Lo sport vero comporta un’etica, esige un comportamento secondo precise regole di rispetto verso i competitori, l’ambiente e innanzitutto le prede stesse, che sono creature animate e come noi esposte al dolore. 
Il cacciatore sportivo è per lo più un mite. E un mite era Emanuele Morganti, il massacrato di Alatri. Sui giornali c’è una bella fotografia del ragazzo sulla riva di un fiume tra canne da pesca. Egli sorridendo mostra una grande carpa. Ora ho imparato che la pesca della carpa è uno sport etico per eccellenza, nato nel 1978 in Inghilterra. I pescatori di carpe mirano solo a catturare grossi esemplari per fotografarli e rimetterli in libertà. A questo fine usano tutto un complicato armamentario di strumenti e di accorgimenti, dagli specialissimi ami alla riossigenazione, per risparmiare agli animali anche la minima sofferenza. 
Qui la pesca esprime appieno l’idea di un modo di esistere, in cui tra il pescatore e il pescato non c’è violenza mortale ma silenziosa amicizia. 

Atroce è l’ironia che un tempo sconvolto come il nostro si diverte a mettere in atto, se un mite uomo, amico degli esseri viventi ritenuti senza ragione, viene ferocemente cacciato e abbattuto per il mostruoso piacere di un gruppo d’altri, imbestiati, uomini.
Forse ha ragione chi prevede che l’«umanità» sarà salva, quando agli uomini in carne ed ossa saranno finalmente subentrati i robot.
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