Il diritto di provare a guarire: serve una legge per i malati rari

di Giuseppe Novelli
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Martedì 25 Luglio 2017, 00:05
Si sono arresi, Chris Gard e Connie Yates. Non c’è più tempo per provare a salvare il loro bambino.

E nessuno potrà mai sapere se le cose sarebbero potute andare in maniera differente. Nessuno può dire se sottoporlo ad una terapia sperimentale un mese fa avrebbe potuto cambiare le sue sorti. La vita di Charlie è iniziata circa un anno fa, il 4 agosto 2016. Dopo otto settimane, al piccolo viene diagnosticata una malattia genetica mitocondriale che colpisce i mitocondri, le centraline energetiche delle nostre cellule. Le malattie mitocondriali colpiscono in media una persona su 11.000 e sono molte e diverse tra loro. Quasi tutte sono malattie gravi multisistemiche, ovvero che riguardano più tessuti e organi, ma principalmente i muscoli e i nervi. Le malattie mitocondriali possono essere distinte, su base genetica in 2 categorie:
1) Malattie causate da mutazioni del DNA mitocondriale (mtDNA)
2) Malattie mitocondriali causate da mutazioni in geni nucleari (quindi trasmessi dai genitori) che codificano per proteine residenti nel mitocondrio.

Charlie ha sofferto a causa di una mutazione trasmessa da entrambi i genitori nel gene RRM2B, rara quanto poco conosciuta (ad oggi sono 73 i pazienti con mutazioni di questo gene) con manifestazioni cliniche diverse che coinvolgono più organi e tessuti e soprattutto l’encefalomiopatia e gravi alterazioni renali). In alcuni pazienti la malattia esordisce alla nascita (le forme più gravi come Charlie) mentre in altri si manifesta nella seconda decade di vita (forme più lievi). Non esiste alcuna terapia sperimentata al momento.

Il Prof. Michio Hirano della Columbia University di New York ha sviluppato in laboratorio un protocollo biochimico basato sulla somministrazione in eccesso di nucleosidi, gli elementi costitutivi del DNA utilizzati dai mitocondri per la loro attività. Questo protocollo non è mai stato sperimentato su esseri umani, ma soltanto su cellule in provetta e su un modello di topo che simula, pur non essendo esattamente la stessa, la malattia di Charlie. Era questo, che chiedevano i suoi genitori: tentare l’intentato. 

Qualcuno dice perché non provare? 
La sperimentazione clinica deve svolgersi attraverso procedure lunghe e consolidate nelle quali viene valutata la tossicità, l’efficacia, e gli effetti indesiderati. Questi studi spesso possono richiedere anche anni e numerosi pazienti. è evidente che con le malattie rare questo non è possibile. 

Ma gli strumenti di cui la scienza oggi dispone consentono un approccio che potrebbe segnare una sorta di “rivoluzione copernicana”. Gli ultimi anni hanno visto notevoli progressi nella tecnologia che ci hanno permesso di ottenere importantissime indicazioni su numerose patologie, anche sulle malattie rare. Tuttavia, al confronto, la velocità con la quale queste conoscenze avanzate sono state tradotte in terapie effettive è stata malauguratamente lenta. Una sfida potrebbe ad esempio essere quella di “umanizzare” le cavie, creando una sorta di “avatar” nei topi e ricreando la malattia umana nel loro organismo.

Ciò consentirebbe di sperimentare nuove terapie senza dover necessariamente attendere i lunghi tempi delle fasi di ricerca, ed evitare “nuovi casi Charlie”, consentendo ai malati - che non hanno alternativa – l’accesso alle cure.

Naturalmente, perché questo possa accadere, è necessario costruire dei nuovi protocolli, istituire delle nuove procedure magari sotto il coordinamento scientifico di un ente per l’attività regolatoria.

Negli Stati Uniti si è cercato di superare questa limitazione introducendo “l’experimental treatment” con la legge “Right to try”, approvata in 37 diversi Stati, che consente di agire in situazioni come quella di Charlie, dopo aver acquisito parere tecnico dell’Agenzia federale FDA (Food and Drug Administration) che ne valuta il razionale scientifico e ne registra poi i risultati in modo da utilizzarli in futuro attraverso banche dati specifiche.

Non possiamo sottrarci a questa responsabilità: dobbiamo, anche in Europa, pensare ad una legge simile. I malati rari (che rari non sono) ce lo chiedono. E lo dobbiamo ai tanti Charlie a cui non abbiamo saputo dare una risposta.

*Rettore Università
degli Studi “Tor Vergata”

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