Omicidio Macchi, parla Binda: «Non sono io l'assassino». L'accusa chiede nuove perizie

Omicidio Macchi, parla Binda: «Non sono io l'assassino». L'accusa chiede nuove perizie
di Claudia Guasco
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Martedì 16 Gennaio 2018, 19:27 - Ultimo aggiornamento: 17 Gennaio, 08:43
MILANO Stefano Binda nega con forza e davanti ai giudici, incalzato dalla pg Gemma Gualdi, respinge le accuse. «Non ho scritto io quel biglietto». A due anni dal suo arresto racconta la sua verità sull’omicidio di Lidia Macchi, ex compagna di liceo, massacrata da 29 coltellate a gennaio del 1987 nel bosco di Cittiglio. Binda viene interrogato in aula nel processo a suo carico e l’accusa mette in fila tutte le prove a suo carico: i biglietti trovati nelle agende, nei cassetti di casa, le poesie, i messaggi anonimi. E lui ribadisce che, con la morte di Lidia Macchi, non ha nulla a che fare.

«DOVREBBERO STRAPPARTI GLI OCCHI»
Tra gli oggetti sequestrati dagli investigatori nell’appartamento di Binda c’è una vecchia agenda e alla pagina del 9 gennaio 1987, insieme a una foto di Lidia Macchi, è custodita una versione di greco con una scritta sul retro: «Stefano è un barbaro assassino». Ma l’imputato assicura di non sapere da dove arrivi: «Non sapevo di avere quel biglietto, lo dissi subito alla Squadra mobile, negai che fosse mio – sostiene in aula – Ora lo confermo, non l’ho scritto io, non dico che qualcuno si sia introdotto nella mia camera e l’abbia inserito, però si trovava in un’agenda che poteva essere anche stata portata fuori casa. Il biglietto ritrae una versione di greco che credo sia databile agli anni scolastici. Le glosse ad esempio non sono mie». Binda ha una spiegazione anche per altre frasi inquietanti trovate nei suoi quaderni. «Dovrebbero strapparti gli occhi», si legge. E lui precisa che si riferisce al suo contrasto interno tra il mondo della droga e quello cattolico di Comunione e liberazione, che non ha nulla a che vedere con l’omicidio ma riguarda una sua sofferenza personale perché si trovava di fronte al bivio se continuare a essere tossicodipendente oppure iscriversi all’Università e aderire a Cl. «Avevo deciso di smetterla con la droga, vivevo un contrasto tra la tensione al bene e la mia adesione a Comunione e liberazione, e la dipendenza dalla droga. Non ero un tossico di piazza, ma ero dipendente. Una sera però incontrai degli amici, a Besozzo, e nel parchetto della stazione fumammo come bestie. Scrissi un altro biglietto, in cui dissi che avevo distrutto tutto, ma riferendomi a quella notte, in cui mi fu anche regalato un cilum, e con una cannuccia inalai dell’eroina per via nasale. Mi sentivo molto addolorato per averlo fatto».

L’ALIBI DELLA VACANZA IN MONTAGNA
 Stefano Binda ripete davanti ai giudici di non essere un assassino e che quando Lidia venne violentata e uccisa si trovava in vacanza in montagna a Pragelato, con un gruppo di Cl. Di quel giorno sulla neve, però, non ha reminiscenze precise, con chi fosse o con chi parlasse: «Ricordo distintamente delle scene, e diverse delle persone nominate oggi in aula, ma non riesco a riferirle se fossero in quella vacanza a Pragelato a quella dell’anno prima». E’ venuto a sapere della morte di Lidia in un momento particolare della vacanza: «Ricordo che una volta arrivati in piazza Monte Grappa, a Varese, vidi un insegnante, Bruschi, che disse ad alcuni di noi che non si trovava più la Lidia». Quanto a frasi che avrebbe pronunciato, Binda nega di aver mai detto, durante una commemorazione di Lidia Macchi, all’amica Patrizia Bianchi una frase che suonava così: «Tu non sai che cosa sono stato capace di fare». Oggi ribadisce: «Lo escludo, non è mai successo». La sua conoscenze con la ragazza uccisa, aggiunge, era superficiale: «Lidia non era tra le persone che frequentavo – rileva – la notai quando al ritorno da una breve vacanza, sul pullman, durante una pausa mi sedetti e Lidia era vicino a me che parlava di una assemblea con una persona».

NUOVE PERIZIE
Binda resta l’unico imputato per la morte di Lidia: la pg Gemma Gualdi ha voluto sgomberare il campo dal sospetto che fosse tale Lelio l’assassino, come ipotizzato da una testimone nelle precedenti udienze al processo.
Il magistrato - «fedele all’impegno di lavorare per la verità anche a favore della difesa», afferma - ha rintracciato Lelio (la teste aveva riferito di conoscerlo solo di vista) che ha subito una perquisizione ieri da parte degli agenti della squadra mobile di Varese e Milano. L’uomo è risultato essere affetto da «schizofrenia cronica» che l’ha più volte costretto al ricovero e, sentito a verbale, ha detto di non aver mai riferito alla testimone di aver ucciso Lidia Macchi nel periodo successivo all’omicidio. Sono stati sequestrati alcuni suoi scritti per compararli con la poesia «In morte di un amica», inviata ai genitori della studentessa alcuni giorni dopo il delitto e attribuita a Binda. «E’ una grafia che potrebbe essere di un bambino delle elementari o poco più», sottolinea Gemma Gualdi. L’uomo si è sottoposto spontaneamente al prelievo del dna. Il procuratore generale di Milano, inoltre, ha richiesto ulteriori approfondimenti. Una perizia psichiatrica su Stefano Binda per accertare se «le patologie» di cui è affetto «possano avere influito sul suo comportamento», un esame «per chiarire un’eventuale sua presenza sulla scena del delitto» e una perizia grafologica sulla poesia «In morte di un’amica». Spiega l’accusa: «Servirà a dirimere definitivamente le divergenze» sulla paternità dello scritto. Altra consulenza genetica, sempre dell’accusa, riguarderà quelle quattro formazioni pilifere trovate sulla salma della studentessa che non sono riconducibili all’imputato. Per il sostituto pg «appartengono a una persona che certamente non ha nulla a che fare con il delitto», ma sono frutto di «inquinamento» da parte di chi, nei giorni precedenti ai funerali, è stato nella camera ardente e ha toccato il corpo per un estremo saluto. «Anzi - afferma Gemma Gualdi - lancio un appello: chi ritiene di poter aver inquinato la scena, si faccia avanti così il suo dna potrà essere comparato per stabilire a chi appartengano quei capelli».
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