Antonio, quali sono state le prime avvisaglie che sotto le macerie c’era vita?
«I cani antivalanga avevano segnalato qualcosa, ma non si capiva bene dove fosse con esattezza, poi abbiamo fatto i primi buchi nella struttura».
Dove?
«Su uno dei solai diventato tetto. Ma non era facile: il ghiaccio di una valanga è compresso e duro come cemento. Quindi abbiamo dovuto bucare sia il ghiaccio e sia il cemento».
Dai buchi che avete fatto nel solaio cosa è venuto fuori?
«Prima un odore forte, come di ambiente chiuso, ma è uscito anche del fumo. Poi le voci, persone che chiedevano aiuto perché probabilmente avevano sentito i rumori della nostra fresa. E quando abbiamo sentito le voci l’emozione è stata forte».
Quindi?
«A quel punto abbiamo allargato il foro, ma dovevamo farlo con grande attenzione perché non sapevamo come si comportava la struttura. Per fortuna è andato tutto bene».
Dove erano le persone?
«In una sorta di cucina, un’intercapedine in cui si è fermata l’aria e quindi anche il calore».
E quando è uscito il piccolo Gianfilippo l’emozione ha coinvolto tutta l’Italia grazie anche al vostro filmato. E voi?
«Beh, immaginate da soli. Per noi è lavoro, sono interventi che facciamo con profondo senso del dovere, ma ritrovare la vita è un’emozione unica. Un bambino poi».
Come avete trovato i bambini salvati?
«In buone condizioni, scossi, ma niente principio d’assideramento».
E adesso?
«Scaviamo e speriamo ancora. Non possiamo fermarci, diverse squadre si alternano in questo lavoro. A questo punto la nostra forza è la perseveranza».
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