Disumanità social/ La morte in diretta scatena i “like” ma non i soccorsi

di Maria Latella
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Martedì 24 Ottobre 2017, 00:05
Si chiama vetrinizzazione. È la vita traslata sui social media, la negazione di basici gesti di umanità perché cosa vuoi che conti il singolo individuo, quello che mi sta vicino, quando posso parlare a una platea di migliaia, di milioni? Vetrinizzazione. La vita in vetrina, la rintronata follia del collezionista di like, famoso per un attimo nel mondo virtuale dei clic.

È una metastasi che toglie ogni umanità, ogni compassione. Hai uno smartphone tra le mani, sei una protesi dello strumento. Vivi attraverso quel pezzo di alluminio.
La storia la sapete già, l’avete appresa anche voi grazie a uno schermo, piccolo o grande che sia. Nella notte tra sabato e domenica, a Riccione, un uomo di 29 anni assiste a un grave incidente stradale. La vittima, un giovane di 24 anni, era in motorino e gli muore letteralmente davanti agli occhi, anzi davanti allo smartphone perché lui, il ventinovenne, è impegnato a filmarlo, a fare la diretta per Facebook. Non cerca di aiutarlo. Non chiama i soccorsi. C’ha da fare: deve riprendere l’agonia. Ha la diretta, caspita. Professione reporter per un dannatissimo momento di gloria.

Sempre che le parole siano quelle che ha davvero pronunciato, naturalmente. Io sto a quel che riferisce Il Resto del Carlino. Il giornale l’ha contattato dopo che su Facebook i suoi follower avevano cercato di fargli capire quanto surreale (mi tengo bassa con gli aggettivi) fosse tutta la scena. «Cosa stai a filmare? Aiutalo che sta morendo».

Il ventinovenne di Riccione (no, il nome non lo scrivo: non voglio dare il mio contributo alla metastasi della celebrità) al Carlino ha detto: «Mi sono messo a filmare perché volevo fare qualcosa per quel giovane a terra e condividere il mio dolore». Era sicuro che altri avessero chiamato i soccorsi e, dunque, volendo «fare qualcosa» per il ragazzo moribondo, lo filmava. Poi, caspita, aveva un’urgenza. Doveva condividere il “suo” di dolore. Non c’era nessun’altra urgenza: non certo quella di alleviare il dolore dell’altro. Non quella di fare qualcosa per salvarlo. C’era la «sua».

Lo so, i coetanei di questo alieno di Riccione diranno che bisogna misurare tutto con un altro metro, che è poi quello delle generazioni native digitali e non il mio. A me sembra tutto soltanto disumano. Troppo disumano. È disumano farsi possedere dal narcisismo della gratificazione. Lo scoop che acceca. I giornalisti conoscono bene quel mix di adrenalina, senso di onnipotenza, trionfo ed eccitazione. Ma i giornalisti, appunto, vengono educati a tenere sotto controllo l’avidità da scoop. 

Ci sono regole, chi non le rispetta, paga. In anni recenti abbiamo scoperto che in Gran Bretagna per uno scoop si mentiva, si registravano telefonate, si manipolavano persone. Ma chi l’ha fatto, poi, ha pagato. Il reporter per caso, invece, non ha regole. E non paga. Vive la stessa dimensione di onnipotenza del giovane cronista ma senza alcuna barriera ed, evidentemente, senza alcun limite morale.

Si è scritto molto sull’era del narcisismo. Non abbastanza sulla desertificazione dei sentimenti che, in questa stessa stagione, si accompagna alla vita vetrinizzata, traslata su quel pezzo di alluminio che ci mette in contatto con chi ci segue e con chi seguiamo.

I nativi digitali vanno a scuola accompagnati dalle assurde chat dei genitori. Fanno merenda chattando con i compagni che neppure più vedono. A 29 anni, fiero dei suoi 11 mila followers, il reporter per caso di Riccione filmava la morte e, certo inconsciamente, pensava all’effetto che fa. Chissà quanti sarebbero diventati, i followers, dopo tutta quell’emozione in diretta.
Lui pensava alle migliaia. Non al singolo, morente davanti a lui. A quel singolo pensassero gli altri. «Chiamate i soccorsi», ha scritto su Facebook. Lui aveva ben altro da fare. C’era tutto un mondo, là dentro il pezzo di alluminio, che aspettava il suo reportage.
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