Quella squadra improvvisata metafora di un Paese diviso

di Mario Ajello
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Martedì 14 Novembre 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 07:57
La Nazionale senza capacità di innovare e d’inventare, perciò perdente. Speriamo che lo specchio del calcio non rifletta esattamente la situazione del Paese.

Perché Capitan Sventura, un Cadorna del pallone e non un Diaz del Piave, non ha saputo fare squadra. Ha sbagliato tutti i ruoli. Non ha avuto una strategia precisa e ha seguito sempre il caso (altro che instabilità politica: qui è molto peggio!). Ha ondeggiato e sbandato, contro una squadra più debole della sua, e questo è un difetto che non dovrebbe esistere né in campo sportivo né in qualsiasi altro. Ed è un peccato questa clamorosa esclusione dal mondiale, perché dà sfiducia a un Paese che faticosamente e in ritardo sembrerebbe ritrovare un po’ di orgoglio di sé e un minimo di ripresa economica, quindi civica e morale. Speriamo soltanto che adesso la batosta, che fa male ma non è la fine del mondo, non dia il via al vero sport nazionale così meravigliosamente stigmatizzato da Benedetto Croce: «Vedo sempre moralisti da caffè e da farmacia, pronti ad annunziare che l’Italia sta per disgregarsi o fallire o dissolversi in tutte le sue corruttele». Non ad abbattersi deve servire la sconfitta di ieri. Ma a capire, guardandola e riguardandola, con occhio clinico e storico-culturale, ciò che questo Paese non dev’essere.

Non può affidarsi all’improvvisazione, che è risaltata come la vera arte (degenerata) di Capitan Sventura. Non può concepirsi come una nazione piena di autonomismi: e la slabbratura tra i reparti della squadra nel match di ieri e in quelli precedenti potrebbe ricordare le attuali divisioni tra il Lombardo-Veneto e il resto d’Italia. Non ha fatto dialogare le generazioni - e per un Paese questo è deleterio - l’allenatore sbagliato: la difesa che è il vecchio blocco del vecchio mondiale staccata dal centrocampo della generazione di mezzo (Candreva, Parolo) e questi due reparti resi incomunicanti con l’attacco fatto dai giovani: Immobile, Florenzi, Belotti. Più Gabbiadini. L’esempio, insieme a Verratti che a sua volta gioca all’estero, di come un cervello (in questo caso si tratta di gambe) di ritorno non può funzionare se non viene messo in condizione di farlo. Non è l’Italia questa Nazionale. Non deve esserlo. Ci ha messo il cuore, e la voglia di non sfigurare. Ma questo a una potenza non può bastare. Ha sperato nella botta di fortuna finale, e questo è disdicevolissimo, perché la retorica dello stellone italiano è quanto di più provinciale si possa immaginare. L’Italia deve sapere cos’è, e invece non s’è capito che Italia voleva essere quella di Capitan Sventura. Se non un’Italia che tira a campare e vada come vada ma poi magari andrà bene.

Capovolgere questa filosofia, già vecchia e stantia, si può e fuori dal modulo Ventura si sta facendo. Ma guai a dimenticare la lezione appena subita. Perché dall’impostazione di gioco, se è giusta è giusta, se è sbagliata è sbagliata, si decidono le sorti delle nazioni a medio termine. È chiaro, poi, che per chi ama il calcio (ma anche la patria), andare al mondiale è il top, la vittoria al mondiale è l’esaltazione finale, e il non essere ammesso al grande torneo è fonte di delusione. Però mai come adesso i club delle nostre città sono pieni di campioni, quasi solamente stranieri, e un grande show lo abbiamo quasi quotidianamente in casa. I mondiali possono pure essere relativizzati.

Anche perché portano tanti soldi più che altro al Paese che ha la fortuna e la forza di organizzarli, così come accade anche per altri grandi eventi. Al massimo può restare il rimpianto, sintetizzabile con le parole di un tipo sdrammatizzante come Ennio Flaiano: «Per molti, l’italiana non è una nazionalità, ma una professione». Quella del calcio - sarà colpa dell’esterofilia o dei vivai delle squadre che non funzionano più - non sappiamo evidentemente svolgerla più come un tempo. Il che significa che il sistema calcio va rifondato a tutti i livelli, e questa eliminazione magari favorirà la svolta sempre annunciata e mai praticata. Nel 1958 non andammo ai mondiali ed era il tempo in cui stavamo entrando nel nostro boom economico. Adesso, un paragone così purtroppo è incongruo. Ma non resta che augurarsi che sia l’economia, almeno parzialmente, a riservarci qualche sorpresa.
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