Brexit al rallenty, perché Theresa May prende tempo

di Beniamino Caravita
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Sabato 23 Settembre 2017, 00:05
Quasi un anno e mezzo dopo lo svolgimento del referendum, sei mesi dopo la dichiarazione di uscita, quando ormai mancano diciotto mesi alla Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, il Primo ministro britannico è venuto a Firenze a dire che gli inglesi sono amici dell’Europa (lo sapevamo dal famoso discorso di Churchill nel 1946), che non si sono mai trovati a loro agio nell’Unione (lo sapevamo dai tempi di de Gaulle), che vogliono ritrovare la loro sovranità (anche di fronte alle severe regolamentazioni internazionali?), che non vogliono far parte del mercato unico (che comporta il rispetto anche della libertà di circolazione), né dell’Unione doganale, né vogliono un modello quale quello del Trattato di libero scambio tra Ue e Canada.

Chiedono fantasia alle istituzioni europee per un nuovo modello di relazioni. E siccome non ci hanno pensato finora a come andare avanti, e nei tre rounds di negoziati svolti finora si sono presentanti impreparati, nel marzo 2019 escono dalle istituzioni politiche, rimangono in una fase transitoria (organizzata come?) e continuiamo tutti a trattare per altri due anni in una dimensione intergovernativa (e poi altri due anni e altri due anni ancora, se non si trovano accordi?).

Si tratta di un discorso deludente, che non costituisce né una svolta, né una sfida in positivo per l’Unione Europea. Nessuna garanzia sui confini irlandesi, nessuna garanzia sul contributo finanziario, nessuna reale garanzia sui diritti dei cittadini europei attualmente residenti in Gran Bretagna. Nel frattempo l’economia britannica continua ad avere le peggiori performance del continente europeo. E l’idea di riorganizzare un mondo anglofono globale, rilanciata dalla May anche a Firenze, con il Regno Unito al centro di un risorto Commonwealth e libero di entrare in accordi economici internazionali appare una chimerica illusione.

La Ue dovrà tenere ferme tutte le sue posizioni. E non è detto che in un futuro prossimo non si ricrei nel Regno Unito, anche dopo un passaggio elettorale provocato da una crisi dell’attuale governo, una nuova maggioranza politica che rimetta in discussione la scelta di uscire dall’Unione Europea.
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