Due anni in cui, dopo l’uscita del Regno Unito dalla Ue nel 2019, Londra continuerà a versare la sua quota e a restare all’interno del mercato comune. Una lenta, lentissima Brexit, in un discorso pensato per un’Europa pacificata. Sennonché nelle ultime ore sul continente è ritornato il vento gelido.
Madrid fa arrestare i funzionari catalani, le piazze a Barcellona si riempiono contro Rajoy mentre nel cuore dell’Impero, la Germania, i sondaggi spingono gli euroscettici di sinistra e di destra, soprattutto quelli dell’Afd; e anche nelle terre merkeliane soffia l’inquietudine. Per di più, le intenzioni della May hanno irritato i conservatori pro «Brexit dura» del ministro degli Esteri Johnson, che ha minacciato di dimettersi. A capo di un partito e di un governo in brandelli, la May che si presenta oggi nella città di Machiavelli è perciò tutt’altro che un principe in sella, ed è difficile che tragga vantaggio da questo disordine. La premier è reduce da un discorso al Palazzo di Vetro non molto diverso da quello recitato da Trump. Così come l’Onu «non è il mondo», allo stesso modo la UE non è l’Europa, dirà probabilmente May: l’Europa è cultura, è storia secolare di commerci, è molto altro; ecco perché è stata scelta Firenze, capitale di quest’Europa ideale. Affermazioni che inorgogliscono noi italiani, la cui cultura è all’origine dell’Europa: siamo un «paese fondatore», non solo perché nel 1957 c’eravamo anche noi. Ma poi sopraggiungono i dubbi: che senso ha per May imbracciare la Brexit e poi calare in Italia a rivendicare un legame con l’Europa ideale, ma non con la comunità politica?
Che significato ha, oggi, dirsi a favore dell’Europa ma non di questa Europa, cioè della Ue? Tanto più che, con la Brexit, il Regno Unito ha generato un effetto domino, di cui per ora è figlia Barcellona, ma che potrebbe dilagare in un contagio. Se le argomentazioni degli indipendentisti catalani sono le medesime dei favorevoli alla Brexit, simili sono infatti anche i risultati (seminare confusione nella UE), e identiche le prospettive; finire fuori dalla Comunità. Come scriveva ieri il Financial Times, il Regno Unito ha omaggiato i Paesi della Ue di un grande dono: dimostrando che uscirvi crea più problemi che restarvi, e che il mostro sta divorando i propri figli. Un memento alla Catalogna, alle Fiandre e anche agli «indipendentisti» di casa nostra: le azioni umane, soprattutto se non meditate, producono effetti indesiderati, e spesso disastrosi. Forse lo stanno già capendo anche a Barcellona, dove la Generalitat ammette che l’intervento di Madrid, il sequestro delle schede, ha «alterato» il referendum: un mezzo passo indietro? In ogni caso un segno di lucidità, che dovrebbe quindi sconsigliare ai sostenitori dei referendum «autonomisti » in Lombardia e in Veneto di cavalcare l’onda catalana con l’ambiguità - almeno a Barcellona hanno il coraggio di prendersi le responsabilità, a cominciare da quella di sobbarcarsi una parte del debito pubblico in caso di secessione.
Per questo è bene che l’Italia sappia rispondere al segnale lanciatole da May venendo nel nostro Paese. E’ proficuo, nei confronti della Brexit, per Roma ripetere le stesse proposte di Francia e Germania? Non sarebbe meglio proporre una nostra soluzione autonoma, che non sia l’approccio punitivo di Macron e di Merkel? Su questo il governo italiano non è mai stato chiaro, mentre una nostra maggiore autonomia dall’asse franco-tedesco ci permetterebbe di stringere con Londra accordi più favorevoli nei confronti, ad esempio, dei nostri connazionali che vivono e lavorano lì. Non sprechiamo un’occasione: e non deleghiamo Parigi e Berlino a parlare in nostra vece. Potremmo presto pentircene.
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