Il cardinale Ravasi: ​«Religione vessillo dei fanatici, è solo violenza»

Il cardinale Ravasi: «Religione vessillo dei fanatici, è solo violenza»
di ​Ciro Cenatiempo
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Domenica 3 Luglio 2016, 15:02
ISCHIA. «Non è in atto una guerra di religione. Il fenomeno è molto più largo. E la religione può essere usata come vessillo perché è più incisiva dei simboli politici in un contesto esteso di fragilità e debolezza». Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, insignito con la penna d’oro al premio Ischia internazionale di giornalismo, all’indomani della strage di Dacca, riflette sugli scenari tragici da un punto di vista ampio e speciale allo stesso tempo.

Cardinale di fronte a questi massacri l’opinione pubblica è disorientata, indotta a credere che siamo in ogni caso, sia in atto proprio un conflitto religioso.
«Certo. Ma pensiamo alla forza che ha la mezzaluna, che è pur sempre un simbolo religioso, diventato poi politico rispetto, poniamo, all’aquila bicipite dell’impero austroungarico. La dimensione religiosa è forte, e per questo aumenta anche quando è strumentalizzata. La usano perché sanno che possono motivare: le religioni motivano di più di quanto faccia una società incolore, inodore. Certo dall’esterno quella che sembra essere la bandiera, si crede sia la vera ragione».

E invece?
«Le ragioni sono molto più articolate, più ramificate tant’è che arrivano persino a toccare i contributi di alcuni stati i quali sostengono il terrore per i loro equilibri, per rimescolare le mappe. In questo senso direi che l’esame di coscienza le religioni lo devono fare sempre e in particolare quando le religioni tendono ai due estremi».

Quali sono gli estremi da condannare?
«Da un lato c’è il fondamentalismo, in cui l’identità è a livello acceso, bruciante; dall’altra il sincretismo, che è l’indifferenza, dire che è tutto uguale. Noi purtroppo siamo una società debole proprio per questo e viviamo la confusione. C’è la necessità di ritrovare i valori che siano autentici, che permettono di decifrare dove c’è il fondamentalismo quando la religione è strumentalizzata, gli interessi innominabili che restano nascosti, altrimenti c’è l’impotenza grigia e incolore».

La Chiesa con papa Francesco è molto attiva.
«Il Cristianesimo di sua natura è una religione di dialogo. In passato ha condotto guerre, ma di sua natura “ama il nemico”: è la visione cruciale. L’impegno delle chiese è fondamentale anche se in minoranza rispetto all’indifferenza. Pensiamo all’influsso dei cristiani delle catacombe rispetto all’impero romano: lo hanno fatto crollare con la testimonianza continua. Il martirio è significativo. Ed è quello che insegna papa Francesco».

Can Dündar, premiato per i Diritti umani, considera inopportuna la citazione del genocidio armeno da parte del papa perché è una questione interna e già in passato chi l’ha condannato ha favorito un riavvicinamento tra Erdogan e i suoi avversari.
«I turchi dovrebbero riconoscere i periodi storici. Il cristianesimo ha fatto mea culpa per le crociate. La Turchia era l’impero ottomano: dovrebbero avere un po’ di realismo al di là dell’autodifesa. E una religione deve proclamare le vittime comunque esse siano. Se è una religione autentica deve avere sempre il rispetto per loro. E allora la Chiesa deve farlo prima di tutto perché sono martiri anche se di una religione diversa: deve dichiararlo e io spero che gli stessi musulmani abbiano un’apertura di spirito per riconoscere che le vittime devono essere sempre celebrate».

La soluzione politica è la democrazia, ma può essere esportata?
«È un modello alto, importante che in molti casi non riesce a produrre gli effetti positivi che ha nel suo interno. Ma la democrazia esportata in Iraq, che cosa ha creato? Conoscevo bene l’Iraq precedente: aveva un regime duro, ci sono stato più volte. Quando c’era il colonnello Aref e ai tempi di Saddam Hussein. Tra i paesi arabi che frequentavo, in Iraq c’era tutto sommato una manifestazione esteriore almeno non dico di libertà, ma di espressione più possibile delle diversità. Saddam con le etnie usava il pugno di ferro e queste riuscivano a mantenersi. Io potevo celebrare messa tranquillamente, il cristianesimo aveva una sua autonomia. Quando è arrivata la cosiddetta democrazia gli equilibri intertribali sono esplosi. È il problema di Afghanistan, Libia, ex Jugoslavia. La democrazia imposta secondo canoni occidentali non ha chance. Le strutture e le visioni di tipo tribale sono realtà profondamente incarnate. Bisogna saper rispettare quel deficit apparente di libertà che però diventa almeno la possibilità di una vita. Cosa che invece, si è visto dopo, è scomparsa con l’introduzione di un modello peraltro accompagnato da una buona dose di ipocrisia».

La fase sanguinaria è destinata a durare?
«I fatti di sangue non sono la dimensione permanente: l’uomo conserva una struttura di fondo che è la relazione con l’altro. La base umana non è la belva. E per quanto barbari si possa essere, si rimane sempre uomini e donne. I terroristi sono in difficoltà: forse diminuiscono le adesioni. Pare che stiano decadendo. Però non dobbiamo inneggiare perché abbiamo creato la società che non ha voglia di fare niente. Alla fine il giovane si ribella al vuoto, anche se apparentemente narcotizza».
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