Cambio di stagione/ La fine del mito multiculturale

di Marco Gervasoni
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Domenica 20 Agosto 2017, 00:01
Le Ramblas sono un simbolo. Ma non dell’«amore che vincerà sempre sull’odio» o del «non cambieranno il nostro stile di vita», per citare i più logori slogan utilizzati in questi casi. Le Ramblas di Barcellona, città multiculturale per eccellenza, sono invece il simbolo del fallimento della società multiculturale.

Un sogno alimentato negli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino, quando si pensava che la storia fosse finita, e che le braccia generose della società di mercato e della democrazia avrebbero accolto tutte le culture del mondo, «colorandola» e «arricchendola». Per la verità, che la società multiculturale non fosse, come dicono i francesi, un «lungo fiume tranquillo» ma il luogo di nuovi e feroci conflitti tra etnie, lo sapevamo dalla storia degli Stati Uniti e poi dall’11 settembre: e lo sapevano già anche gli spagnoli, vittime nel 2004 del più sanguinoso attentato terroristico nella storia dell’Europa. Dal multiculturalismo ci avevano poi già messo in guardia, sul versante della visione letteraria, Oriana Fallaci, e su quello delle scienze sociali il grande politologo americano Samuel Huntington che, nel 2004, nel suo libro Who are we, ci ha fatto capire come il multiculturalismo finisca per minare le basi della società occidentale, fondata sulla libertà individuale, sulle garanzie, sulla rappresentanza politica e sul mercato. Fino ad ora, i più sanguinosi attentati sul suolo europeo della seconda ondata islamista, quella che reca la firma dell’Isis, si sono svolti non a caso in paesi da tempo multiculturali: Francia, Regno Unito, Belgio, e ora Spagna. Nazioni in cui i governi, fossero di «destra» o di «sinistra», non solo avevano promosso negli anni l’apertura generosa delle loro frontiere agli immigrati ma avevano inserito nella loro legislazione sempre più ampie concessioni al multiculturalismo, persino la Francia della laicité. E a far saltare in aria o sventrare sono quasi sempre stati cittadini di quei paesi, figli di immigrati, spesso addirittura di terza generazione: che, nonostante le opportunità offerte dalle leggi europee e dal generoso Welfare State, non si sentivano francesi, inglesi, spagnoli, belgi. La loro identità la cercavano (e la cercano) nell’Islam, vissuto come una spada contro l’occidente, e nel mito politico del Califfato: che a noi farà sorridere, ma è quello che spinge alla morte gli jihadisti. Perciò non è vero che dobbiamo convivere con il terrorismo. O, perlomeno, non è scontato che l’Occidente lo debba fare senza reagire, piegandosi ad una lenta sottomissione. Oltre alla reazione culturale (prendersi cura della tradizione occidentale) e militare e poliziesca (riforma dell’intelligence europea, ancora carente), la via da intraprendere consiste nel fissare con rigore i confini dell’integrazione. Rifiutare il dogma del multiculturalismo vuol dire comprendere che la cultura occidentale è scarsamente compatibile con quella extra occidentale, in modo particolare con quella legata all’Islam. E’ indispensabile che le culture dialoghino, e sono da evitare gli incendiari da una parte e dall’altra: ma, oggi, esse rimangono molto distanti. Il che non significa che siano tutte legittime, e possano convivere una accanto all’altra con pari diritti; secondo una prospettiva relativista che già oggi consente l’applicazione del diritto islamico o porta a chiudere un occhio sulle pratiche di sottomissione delle donne e delle bambine, nei quartieri islamici della capitale britannica, non a caso chiamati Londonistan, o in quelli di Svezia e di Finlandia. Sono le culture che noi europei accogliamo a doversi adeguare alle leggi e in parte anche ai nostri costumi occidentali, così come un occidentale che si reca un paese in cui vige la Sharia sa che deve attenervisi, anche se islamico non è. Con l’integrazione a queste condizioni, gli attentati certo non cesseranno di colpo: ma diventerà chiaro quanto gli occidentali siano pronti a combattere per i loro valori, che invece molti individui, europei solo per cittadinanza, non riconoscono: e che anzi vogliono distruggere.
 
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