FINE DEI CLICHE’
Caciarone? Misurato, almeno per un giorno. Politicamente scorretto? Sì, e questo gli giova, ma corretto dal punto di vista del rispetto delle regole del protocollo - che solitamente non sono il suo forte - a parte il mancato saluto alla bandiera italiana nel cortile del Quirinale. Per il resto impeccabile sia lui sia la moglie e la figlia. Le quali - altro che maschilismo di The Donald, ennesimo cliché spazzato via da questa visita insieme a quello che dipingeva Trump come l’Anti-Papa e il Papa come l’Anti-Trump - hanno svolto in queste ore un ruolo politico vero, tutt’altro che ancillare. E insieme si sono calate fino in fondo nell’estasi che Roma produce in chi sa, anche se per poche ore, entrare nel suo spirito che sopravvive a qualsiasi difficoltà del presente. Ecco allora Ivanka quasi sconvolta dalla bellezza dei dipinti di Caravaggio nell’aula capitolare della comunità di Sant’Egidio. Melania che soltanto nell’estasi michelangiolesca della Cappella Sistina concede al consorte di essere presa per mano, dopo il diniego di Tel Aviv e quello quasi altrettanto plateale sulla scaletta dell’aereo appena atterrato a Fiumicino. E lui, il Potus, che gira nelle prime ore del mattino dai Parioli al Vaticano (dove entrando ha detto in ascensore a Georg Gaenswein, prefetto della casa pontificia: «Sembra la Trump Tower»). Ammira l’Urbe attraverso i finestrini corazzati della sua Chevrolet anti-bomba (si è seduto non dietro ma accanto al guidatore). E poi da Oltretevere si avvia con le 40 auto di scorta (Gentiloni dopo lo raggiungerà a Villa Taverna con un codazzo di appena quattro macchine) verso il Quirinale. Passando in mezzo all’unica città dove la storia si manifesta in strati di pietre sovrapposti, che cambiano dall’Età augustea al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco, fino al periodo umbertino (ecco The Donald che sfiora il Vittoriano) e al Novecento.
INVERTIRE IL TREND
Ma Roma davanti all’”imperatore” ha mostrato non solo la sua forza estetica e culturale, che le è connaturata.
Ha anche ritrovato la fiducia in se stessa. Che sembrava avere perso. E invece, a contatto con Trump ma in virtù di un effetto auto-prodotto essendo The Donald un potente ma non un mago, la Capitale si vede capace di pulire le sue strade, di gestire un evento complicato senza sbavature, di diventare set perfetto e non passivo agli occhi del mondo, di interrompere (ma l’intervallo non deve bastare) la maniera altalenante in cui solitamente funziona. Come s’è capito in questo frangente, le risorse anzitutto mentali per invertire la tendenza ci sono: basta farle passare dalla sfera dello straordinario alla sfera della normalità. E’ chiaro a questo punto che il declassamento di Roma non è un ineluttabile destino storico. I Trump lo hanno capito, o quantomeno hanno aiutato a farlo capire. Ma soprattutto sono i cittadini romani che forse, pur patendo un po’ il traffico e altre difficoltà e al netto della retorica Caput Mundi, hanno cominciato a maturare una consapevolezza che era ingiustamente sopita: Roma può riprendersi la centralità che gli spetta. E il ciuffo di The Donald a qualcosa è servito.
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